Incontro del Card. Prefetto con i Seminaristi e i Formatori in Germania

Speyer, 11 maggio 2024

21 maggio 2024

Carissimi seminaristi e carissimi formatori,

sono contento di poter trascorrere con voi queste ore. Spero che possano essere un vero incontro fra noi e anche un incoraggiamento nel cammino che state e che stiamo facendo.

Mi avete fatto arrivare una serie di domande; domande personali, ma anche domande sull’identità del sacerdote oggi e sulla formazione; e domande sulle sfide che la Chiesa vive oggi, nel vostro Paese, ma anche in tanti altri posti. Vi ringrazio per queste domande e spero che possiamo avere un dialogo fruttuoso. Alcune sono domande molto impegnative che non potremo certamente esaurire oggi, ma cercherò di offrirvi almeno qualche spunto di riflessione.

Ma prima di tutto mi piacerebbe di conoscere meglio quello che vivete e sentite. Perché in realtà ho anch’io da imparare. Non sono venuto solo per parlare, ma anche per ascoltare. Per questo ho chiesto se due di voi possono raccontare ciascuno in cinque minuti qualcosa della vostra esperienza di candidati al sacerdozio in Germania e della vita in seminario.

 

 

Domande dei Seminaristi

E adesso passiamo alle vostre domande. Cominciamo da una domanda più personale.

 

1. Perché Lei ha deciso di diventare cristiano e di farsi battezzare da adolescente? Come si è svolto il suo cammino vocazionale?

Vi racconto brevemente. Sono nato durante la guerra in Corea, come terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. La mia famiglia non era cristiana. Ho avuto la grazia di fare il liceo in una scuola cattolica. Questa scuola portava il nome di Sant’Andrea Kim, il primo sacerdote coreano morto come martire. La sua testimonianza mi ha attirato molto. Così ho iniziato la preparazione al battesimo. Sono stato battezzato nella vigilia del Natale del 1966. Avevo 16 anni. Ero il primo cristiano in famiglia.

 

Conoscendo Gesù, ho sentito la spinta di aprire il mio cuore agli altri. Così a scuola, assieme ai miei amici cristiani, abbiamo svolto vari servizi. Ci impegnavamo, tra l’altro, nella pulizia dei bagni che erano tanto sporchi. In quel servizio umile abbiamo scoperto la gioia di essere cristiani. E ho imparato una cosa: il cristianesimo è concreto, non è un’idea teorica. Prima del battesimo io ero chiuso nel mio piccolo mondo. Diventando un giovane cristiano impegnato, sempre più si è aperto davanti a me un orizzonte immenso. Quella scuola era tenuta da suore che mi volevano molto bene. Ogni tanto mi dicevano: «Lazzaro, forse tu puoi andare in seminario». Naturalmente io dicevo di no, ma poi quelle parole mi tornavano in mente e pian piano è maturato in me il desiderio di diventare sacerdote. Questa decisione non fu presa bene in famiglia. Mia mamma ha pianto per tre giorni, senza mangiare né dormire. Ma poi sono cambiate le cose e anche lei si è fatta battezzare.

 

Ancora una cosa. Quando sono entrato in Seminario, io sognavo il paradiso, pensavo che lì tutto fosse perfetto, un ambiente senza problemi, dove si respira la santità. Sono bastati pochi giorni per capire che il seminario era un luogo come gli altri, con tutte le contraddizioni che noi esseri umani ci portiamo dentro. È stato un momento di crisi, ma non potevo e non volevo tornare a casa. Dopo qualche giorno ci è stato offerto un momento di formazione. Sono venuti in seminario un sacerdote e due laici. Ci hanno parlato di come vivevano il Vangelo. Per me è stato un vero e proprio choc, perché fino a quel momento il Vangelo non era incarnato nella concretezza della mia giornata e quindi non aveva effetti tangibili. Quando ho scoperto cosa significa vivere la Parola, ho cominciato a trovarmi bene in seminario: non perché le circostanze esterne fossero mutate, ma perché erano cambiati i miei occhi, era cambiato il mio cuore.

 

Questo è rimasto fondamentale per me fino a oggi. Lasciare che la Parola penetri e trasformi la nostra esistenza e i nostri rapporti è il fondamento sicuro che resiste a tutte le tempeste e ci fa affrontare bene le inevitabili crisi che affliggono il nostro cammino.

 

2. Ritiene Lei che la formazione sacerdotale cambierà o debba cambiare e - se la risposta sarà affermativa - in che modo/direzione?

Sono convinto che la formazione sacerdotale in questo nostro tempo non può non cambiare. Perché noi viviamo – come ci ricorda spesso Papa Francesco – un cambiamento d’epoca. «Non siamo più in un regime di cristianità – ha detto il 21 dicembre 2019 alla Curia Romana – perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Sentiamo tutti che questo richiede un cambiamento nella pastorale e quindi anche nella formazione. Non è una cosa strana. Durante tutta la storia del cristianesimo ci sono stati cambiamenti nel modo di formare i sacerdoti. Nel Medioevo c’erano le scuole cattedrali, dopo il Concilio di Trento, San Carlo Borromeo ha dato vita ai seminari. E c’è stato sempre un importante contributo dei carismi. Basta pensare che tutti facciamo ogni anno gli Esercizi spirituali che risalgono a Sant’Ignazio. E tutti recitiamo i Salmi del Breviario, come fanno i monaci.

 

Ma veniamo all’oggi. Al Simposio sulla Teologia del sacerdozio, nel febbraio 2022 in Vaticano, Papa Francesco ha detto che, in questi momenti di cambiamento d’epoca, ci sono due estremi da evitare: - fuggire nel passato, cercando «forme codificate, molto spesso ancorate al passato e che ci “garantiscono” una sorta di protezione dai rischi, rifugiandoci in un mondo o in una società che non esiste più»; - oppure fuggire in avanti, con un ottimismo senza discernimento che «“consacra” l’ultima novità come ciò che è veramente reale, disprezzando così la saggezza degli anni» (17 febbraio 2022).

 

Dobbiamo quindi muoverci con coraggio e apertura, ma anche con criterio e discernimento. Alcuni passi importanti sono avvenuti con la pubblicazione della nuova Ratio fundamentalisper la formazione sacerdotale nel 2016. Immagino che la conoscete e che i vostri formatori ve ne parlano. Ricordo solo tre degli accenti nuovi che mi sembrano importanti:

 

1. Tutta la prima tappa della formazione è dedicata alla formazione al discepolato. Vale a dire: prima di diventare preti bisogna essere discepoli missionari, autentici seguaci di Gesù. In questo campo, penso, ciascuno di noi può fare tanto: sviluppare uno stile di vita radicato veramente nel Vangelo.

 

2. Più di prima si punta alla formazione comunitaria. Secondo il Concilio Vaticano II non si può esercitare il ministero sacerdotale in una Chiesa che è comunione, se non viviamo innanzi tutto la comunione fra noi sacerdoti e se non siamo allo stesso tempo in stretto rapporto e in dialogo con i fedeli laici, uomini e donne. Lo ha ribadito Papa Francesco nella Lettera che ha rivolto pochi giorni fa a tutti i parroci del mondo (2 maggio 2024): si può essere preti solo insieme. Credo che tutti sentiamo che in questo campo c’è ancora tanto da fare.

 

3. Infine, la Ratio del 2016 pone un forte accento sulla maturità umana, in particolare anche nel campo affettivo e delle relazioni. Ciò non vuol dire essere perfetti e non avere fragilità, ma riconoscerle e affrontarle, con un accompagnamento adeguato – un cammino che dura tutta la vita!

La prima sessione dell’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi nell’ottobre scorso ha sollecitato un ulteriore lavoro: bisogna formare i futuri sacerdoti in prospettiva sinodale e missionaria e ciò vuol dire: a stretto contatto con la realtà del mondo di oggi e con l’apporto di tutte le vocazioni del Popolo di Dio. Dovrà nascere per questo, per desiderio di Papa Francesco, un gruppo di studio.

Punto di riferimento per ogni sviluppo non può non essere il primo “seminario”: la comunità degli apostoli con Gesù, da attualizzare nelle varie epoche e nei vari contesti. Sono grato che la mia formazione iniziale già tanti anni fa puntava a questo. Mi rimane impresso fino a oggi il motto che seguivamo: Un solo libro: il Vangelo. Una sola legge: il comandamento nuovo dell’amore vicendevole. Un solo Maestro: Gesù fra noi.

 

3. Come Lei valuta la situazione della fede e della Chiesa in Germania?

Sono venuto qui in Germania con grande gratitudine e rispetto. Gratitudine perché le Chiese locali nel mondo devono tantissimo alla Germania. Anche la mia diocesi in Corea è stata aiutata generosamente per la costruzione di un ospedale cattolico. Non possiamo dimenticare poi il contributo di grandi teologi come Karl Rahner e Joseph Ratzinger al Concilio Vaticano II. Inoltre, mi ha sempre colpito la vivacità dell’impegno dei laici in Germania, con tante associazioni. Ne sono venuti impulsi importanti anche per la dottrina sociale della Chiesa.

Assieme alla gratitudine, c’è pure il rispetto. Perché mi rendo conto della grande prova che vive la Chiesa cattolica in Germania e che si manifesta in tanti fatti che voi conoscete molto meglio di me: la drammatica crisi di vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata e la difficoltà di raggiungere le nuove generazioni; la crisi degli abusi e l’abbandono della Chiesa da parte di molti; la fatica di esprimere la fede nel linguaggio e nell’esperienza della gente di oggi, parrocchie sempre più grandi con sempre meno preti... Vedo tutto questo come un’esperienza di deserto, una dolorosa notte, così come arriva nella vita dei singoli in fasi avanzate del cammino spirituale. Secondo il pensiero dei Maestri dello Spirito queste notti sono una purificazione sempre più in profondità ma, vissute bene, preparano nuove fioriture e nuovi frutti. C’è da essere grati ai tanti che, in questa situazione non facile, vivono con impegno la loro fede e si pongono in molti modi al servizio degli altri. È un forte motivo di speranza anche il fatto che voi, proprio in questo tempo di prova, non avete esitato a rispondere alla chiamata di Dio e vi siete incamminati a servire la Chiesa.

La grande domanda è: come vivere bene questo momento di notte? Forse si può applicare anche a livello ecclesiale quello che i Maestri dello Spirito suggeriscono per il cammino personale e che possiamo vedere riflesso pure nella storia del popolo di Israele nell’Antico Testamento: una rinnovata e più cosciente scelta di Dio ; una più radicale adesione alla Parola di Dio; una più profonda coscienza della chiamata battesimale a con-morire e con-risorgere con Cristo (cf. Rm 6). Lo dico spesso ai miei collaboratori nel Dicastero per il Clero quando ci imbattiamo in inaspettate difficoltà: è la croce; non c’è altra via; non c’è altra via alla resurrezione!

Sono convinto che allo stesso tempo è di grande importanza lo stile sinodale che la Chiesa cattolica sta riscoprendo in questi anni: porci in profondo ascolto gli uni degli altri e insieme in ascolto dello Spirito Santo, senza pensare di sapere già quale può essere la soluzione. Questo è un impegnativo esercizio nel quale siamo ancora molto all’inizio. Ma stiamo già raccogliendo primi e promettenti frutti di questo stile sinodale. Lo abbiamo sperimentato nel febbraio scorso in un incontro di oltre 800 persone – vescovi, sacerdoti, consacrati e laici, uomini e donne – impegnate nella formazione permanente dei sacerdoti – un campo che presenta grandi sfide. Vivere questo incontro con uno stile partecipativo, nell’ascolto e nell’accoglienza scambievole, ha sprigionato come un’onda di Spirito Santo, con una spontanea fraternità e tanta gioia. Cosa simile è avvenuta anche pochi giorni fa nell’Incontro internazionale “i Parroci per il Sinodo” che ha riunito 200 parroci provenienti da 99 nazioni. In ambedue gli incontri, abbiamo fatto un’esperienza viva del Risorto.

4. Che cosa Lei pensa circa il calo del numero dei credenti e delle vocazioni (nei Paesi di lingua tedesca)?

Bisogna dire innanzi tutto che queste cose non si verificano solo nei Paesi di lingua tedesca. Ormai sono un fenomeno mondiale, almeno nel mondo occidentale, anche se da voi la situazione è particolarmente dolorosa. Cosa pensare di questo fenomeno e come affrontarlo? Ho già detto qualcosa. Si tratta, a mio avviso, di un momento di notte. Vivete e viviamo un tempo di crisi. Ma la crisi è sempre anche un’opportunità, la chance che nasca qualcosa di nuovo. Penso sempre alla profezia di Isaia: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43, 19).

Ponevate la questione del calo del numero dei credenti e delle vocazioni. Mi fa impressione che anche Gesù ha fatto quest’esperienza: dopo un primo periodo d’oro, ha sofferto un clamoroso calo dei credenti; non c’erano più le adesioni di massa e le vocazioni come all’inizio; anche le colonne della Chiesa – i Dodici – vacillavano. Poi è arrivato il crollo totale: è morto in croce; ha gridato l’abbandono del Padre (cf. Mc 15, 34). Vedo da voi, ma non solo da voi, una Chiesa che grida, in un mondo che grida. Ma poi è arrivata la risurrezione, il nuovo inizio donato da Dio. Nessuno, neanche Gesù, avrebbe potuto ottenerlo con le proprie forze.

Come ho già detto, penso che siamo invitati a fare un’esperienza pasquale. Secondo la Scrittura, questa esperienza si può verificare quando camminiamo insieme, come i discepoli di Emmaus, e apriamo il cuore l’uno all’altro, riconoscendo la nostra povertà, i nostri dubbi, l’aporia in cui versiamo. Proprio allora Gesù si può far presente.

Della comunità post-pasquale si dice che «erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1, 14). Nella preghiera, perché ormai sapevano che non potevano fidarsi delle proprie forze: nell’ora più drammatica, tutti avevano fallito o avevano comunque visto crollare tutto. Concordi, mentre prima erano divisi e c’erano rivalità tra loro. Con le donne e con i fratelli di lui… È su questa comunità che è sceso, nella Pentecoste, lo Spirito Santo!

Non incontriamo in queste testimonianze della Scrittura il richiamo a una Chiesa sinodale? Sinodale non tanto nella sua organizzazione e nelle sue procedure, pur necessarie, ma nel suo modo d’essere più profondo che si esprime oggi – come ci hanno raccontato pochi giorni fa i parroci – nella vita di tante piccole comunità cristiane che ravvivano il tessuto della vita ecclesiale. Mi chiedo se non sarà proprio da questa micro-sinodalità – così è stata chiamata nel recente incontro internazionale di parroci – che potranno nascere nuove fioriture.

 

5. Quale idea di sacerdote sarà importante per il futuro?

Innanzi tutto, credo che dovremmo guardare con maggiore attenzione e tenerezza a ciò che avviene nel cuore di un prete. Ci sono solitudini, ansie di prestazione, fatiche interiori. Ho molto a cuore questo. Quando tre anni fa sono diventato Prefetto del Dicastero per il Clero, un mio confratello vescovo mi ha detto: «Adesso tu sei responsabile che tutti i preti del mondo siano felici». Non ho più potuto dimenticare questa parola e cerco di farne una linea-guida del mio servizio, assieme anche ai miei collaboratori al Dicastero.

Ma quale idea di sacerdote sarà importante per il futuro? Lo avrete già capito da quello che dicevo del cambiamento d’epoca: non potrà essere il sacerdote come era concepito in passato, anche se tanti valori rimangono invariati, come la totale dedizione a Dio, la preghiera e la celebrazione dell’Eucaristia, la carità pastorale. Dovrà essere il sacerdote come Gesù lo vuole in questo nostro tempo, il sacerdote della Chiesa comunione e missione come l’ha concepito il Concilio Vaticano II: in cammino con il vescovo, con gli altri sacerdoti e con i fedeli laici, impegnato insieme a loro a testimoniare il Vangelo nei vari ambiti della vita umana (cf. Decreto Presb. Ordinis, 7-9). Dobbiamo pensare oggi al prete nel popolo di Dio e in missione assieme a tutti i battezzati. Altrimenti non potremo mai più raggiungere tanti ambienti (Milieu) nei quali la Chiesa ormai è totalmente assente.

Attualizzando l’insegnamento del Concilio, l’Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis ha sottolineato la «connotazione essenzialmente “relazionale” dell’identità del presbitero». Cito: «Non si può allora definire la natura e la missione del sacerdozio ministeriale, se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti, che sgorgano dalla SS.maTrinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento, in Cristo, dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (n. 12).

Cosa vuol dire questo? Parlando nel febbraio 2022 al Simposio per una teologia del sacerdozio, Papa Francesco ha sottolineato quattro vicinanze che devono caratterizzare la vita dei sacerdoti:

1. Innanzi tutto, la vicinanza a Dio, l’intimità con lui, nel silenzio e nell’adorazione. «In quella vicinanza – ha detto – non fa più paura conformarsi a Gesù Crocifisso, come ci viene chiesto nel rito dell’ordinazione sacerdotale»

2. La vicinanza al Vescovo. «Il vescovo – ha osservato il Papa – non è un sorvegliante di scuola, non è un vigilatore, è un padre». Ciò richiede «che i sacerdoti preghino per i vescovi e sappiano esprimere il proprio parere con rispetto, coraggio e sincerità. Richiede ugualmente ai vescovi umiltà, capacità di ascolto, di autocritica e di lasciarsi aiutare». Certo, da voi le diocesi sono molto grandi e non è facile incontrare il vescovo. Questo pone particolari sfide.

3. La vicinanza tra i presbiteri. «In molti presbitéri – ha riconosciuto il Papa –, si consuma il dramma della solitudine, del sentirsi soli». Il rapporto fra i preti, invece, ha «la funzione di custodire, di custodirsi mutuamente. Mi spingo a dire – ha osservato – che lì dove funziona la fraternità sacerdotale, la vicinanza fra i preti, ci sono legami di vera amicizia, lì è anche possibile vivere con più serenità la scelta celibataria». Faccio anche qui una precisazione: nel vostro Paese, i sacerdoti si trovano oggi a collaborare con tanti altri operatori pastorali a tempo pieno, e questo è anche una ricchezza, ma rimane fondamentale la condivisione fraterna e l’aiuto vicendevole fra i sacerdoti.

4. Infine, la vicinanza al popolo. «Sono certo – ha detto Papa Francesco – che, per comprendere nuovamente l’identità del sacerdozio, oggi è importante vivere in stretto rapporto con la vita reale della gente, accanto ad essa, senza nessuna via di fuga».

 

Detto in sintesi, sono convinto che il sacerdote oggi deve vivere innanzi tutto la sua chiamata di battezzato: essere un vero testimone, un discepolo missionario, fratello tra i fratelli. Ed essere un uomo del dialogo: radicato profondamente in Cristo, saper costruire rapporti con tutti. Allora riesce bene il suo specifico servizio al Popolo di Dio e il suo annuncio della salvezza.

Lo sperimento spesso a contatto con le persone: toccate dalla nostra attenzione, diventano nostri amici e aprono il cuore. E allora possiamo far scoprire loro l’Amore di Dio e, quando è il momento, offrire loro anche la Parola di Dio e i sacramenti. Mi è capitato di confessare delle persone pure in aereo o in piazza San Pietro, alla fine di un colloquio a cuore aperto. L’importante è il rapporto, che ha la sua radice ultima nell’Eucaristia: la comunione con il Corpo di Cristo ci spinge a servire gli altri e a edificare così il Corpo mistico.

 

6. Come può riuscire la missione della Nuova Evangelizzazione?

Anche qui c’entra il cambiamento d’epoca. Lo avvertiva già Paolo VI quando ha scritto nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi«L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (n. 41).

 

Giovanni Paolo II, scrivendo all’indomani del Grande Giubileo del 2000 la Lettera apostolica Novo millennio ineunte, ha rilevato che il mondo di oggi crede innanzi tutto a ciò che può vedere e toccare. Cito: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12, 21). […] Come quei pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di “parlare” di Cristo, ma in certo senso di farlo loro “vedere”» (n. 16).

Allora, qui noi tutti abbiamo un grande e bellissimo compito. Ma come “far vedere” Gesù? Provo a indicare quattro piste: 

1. L’autenticità della nostra vita. Oggi le persone, e specialmente i giovani, hanno sete di esempi significativi. Non credono alle prediche, diffidano di chi si impone alla loro visione di libertà in nome di una qualche autorità, ma si lasciano toccare quando incontrano testimoni autentici. Comprendiamo su questo sfondo il grave danno che hanno fatto gli abusi.

2. La testimonianza di rapporti veri fra noi e con tutti. Questo era il segreto della prima diffusione del cristianesimo. Conosciamo tutti, penso, la nota parola di Tertulliano: «Guardate come si amano e sono pronti a dare la vita l’uno per l’altro» (Apologeticum, 39, 7). Non a caso Giovanni Paolo II, nella già citata Lettera apostolica Novo millennio ineunte ha affermato: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo» (n. 43). Fra noi cristiani, fra noi preti, fra i seminaristi, si dovrebbe trovare una qualità di rapporti che stupisce. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35).

3. Un annuncio rispettoso. Papa Francesco, come ha fatto già Papa Benedetto, ci ricorda che la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione. Solo sulla base di una convincente testimonianza personale e comunitaria possiamo annunciare il Vangelo. Oggi comprendiamo che questo annuncio deve essere sempre rispettoso della libertà dell’altro. Deve essere portato con tutta la convinzione, ma come un’offerta, un dono. Non può essere imposto. Per questo oggi è importantissimo essere esperti del dialogo.

4. Un linguaggio comprensibile e vitale. In uno dei suoi incontri con i preti di Roma, Papa Benedetto ha osservato che la fede cristiana viene spesso trasmessa con parole e concetti che non si comprendono più e che necessitano di una traduzione nella vita di oggi. Gesù parlava il linguaggio della gente del suo tempo, usava nelle parabole immagini tratte dall’esperienza quotidiana. Dovremo imparare questo linguaggio attraverso un profondo ascolto. Ha scritto il grande vescovo e teologo della vostra terra, Klaus Hemmerle: «Fammi imparare da te il tuo modo di pensare, il tuo linguaggio e i tuoi interrogativi, il tuo esserci, affinché io possa apprendere in modo nuovo quel messaggio che ho il compito di consegnarti».

 

7. Quali sfide e difficoltà Lei vede per la Chiesa universale nel futuro?

Le sfide non mancheranno mai. Ce lo dicono le letture dagli Atti degli Apostoli in questo tempo pasquale. Non dobbiamo spaventarci di questo, ma confidare nella forza dello Spirito Santo.

Non dimentico mai che la Chiesa nella mia terra è nata dal sacrificio di tantissimi martiri. E così è stato agli inizi del cristianesimo: Sanguis martyrum, semen christianorum.

 

Cosa voglio dire? Lo Spirito è all’opera, anche oggi. Ma non esiste un cristianesimo low cost. Questo è forse difficile comprendere nelle odierne società del benessere e del consumo; ed è certamente anche una delle spiegazioni per la mancanza di vocazioni che richiedono il dono totale di sé: nel ministero sacerdotale, nella vita consacrata, ma anche nel matrimonio cristiano. Eppure, la vita della verginità e poi dei monaci, nei primi secoli del cristianesimo, sono sorte come una scelta controcorrente in una società come la nostra. Mi fa sperare il fatto che tra i giovani più giovani si avverte una nuova domanda di senso: per che cosa vivo? Per chi mi gioco la vita? Occorre prendersi cura di questo.

 

Ma quali sono le sfide per la Chiesa universale nel futuro?

Una prima sfida è proprio la fine della Christianitas e l’avvento di un mondo plurale. Prima i valori e i costumi cristiani erano condivisi dalla società, ed eravamo come protetti, oggi dobbiamo imparare a navigare in mare aperto. Non siamo più Chiesa di massa (Volkskirche), ma siamo chiamati a essere “sale della terra” e “città sul monte” (cf. Mt 5, 13-14). Non era diverso agli inizi del cristianesimo! In questo contesto dobbiamo imparare a dialogare con tutti e – come ci ricorda Papa Francesco – ad avviare processi anziché volere occupare spazi; processi che, col tempo, portano un cambiamento (cf. Evangelii gaudium, 223).

 

Una grande sfida è certamente anche l’individualismo, dovuto a molti fattori, e un’antropologia che centra la persona in sé stessa anziché portarla al dono di sé e all’incontro con l’altro nella sua diversità. Sta qui la radice di tanta frammentazione e di tante polarizzazioni, anche all’interno della Chiesa. Su questo sfondo è di straordinaria attualità e di grande carica profetica la riscoperta di uno stile sinodale di Chiesa, dove si praticano l’ascolto e l’accoglienza vicendevole e si impara a camminare insieme, anche in mezzo alle tensioni.

 

Ci sono poi le grandi sfide mondiali che tutti conosciamo e che ci interpellano anche come Chiesa: dalla terza guerra mondiale a pezzi – come la chiama Papa Francesco – alla salvaguardia del pianeta, dalla fame e dalla povertà ai vari fondamentalismi e agli scenari dell’intelligenza artificiale.

Non vorrei dimenticare poi la sfida dell’inculturazione del Vangelo e quella della ricomposizione dell’unità dei cristiani in una diversità riconciliata, come presupposti indispensabili perché il messaggio cristiano risulti credibile e incida.

 

Ma la sfida delle sfide a mio avviso è quella di essere uomini e donne nuove, persone che hanno incontrato Gesù e sono accese dal fuoco del suo Amore, persone che hanno scoperto che «vi è più gioia – e anche più libertà – nel dare che nel ricevere!» (cf. At 20, 35); persone che mettono al centro l’altro e con questo seminano germogli di un mondo nuovo.

 

Permettete che a questo proposito vi racconti di quanto ho vissuto con un bonzo buddista col quale avevo coltivato una bella amicizia. Quando tre anni fa l’ho salutato prima di trasferirmi a Roma, mi ha detto: «Il suo sorriso conquista tutti». Successivamente mi ha mandato un sms: «Adesso la sua terra è il mondo. Là, a Roma, vivrà per tutti, tratterà bene tutti». L’ho preso come un mandato, una mission che mi accompagna nel mio servizio alla Chiesa universale.

 

8. Quale versetto biblico Lei ha scelto per il suo santino in occasione dell'Ordinazione sacerdotale, e perché l’ha scelto?

 Sull’immagine della mia prima messa stava scritto un versetto degli Atti degli Apostoli: «Io ti ho posto come luce per le genti» (At 13, 47) perché, studiando a Roma e avevo sperimentato che la luce del Vangelo è per tutti i popoli. Così ho scelto anche come motto episcopale le parole “Lux mundi”.

Ma il punto decisivo per me è questo: perché ci sia la luce del Risorto bisogna amare la croce. Quando il Papa mi ha chiamato a Roma, dopo 18 anni come vescovo in diocesi, è stato un cambiamento totale. Lasciare la mia patria, lasciare la nuova curia diocesana che ho costruito e tante iniziative pastorali ben avviate, lasciare, soprattutto, molti rapporti e buone amicizie, è stato un test salutare. La via è stata abbracciare la croce. Far sul serio con la mia scelta di Gesù crocifisso come Unico Tutto.

 

Vi confido una cosa che mi è capitata nel giorno dell’Ordinazione sacerdotale. Quella mattina mi sono svegliato e – non so per quale motivo – avevo la sensazione che in quel giorno sarei morto. Mi sembrava strano. Ma poi, quando durante la Messa ero prostrato a terra e l’assemblea invocava i Santi, ho improvvisamente compreso: ero come il chicco di grano che cade in terra e muore, ero nella posizione di morire con Cristo per il bene dei fratelli. Lì ho capito: il sacerdozio è morire per vivere con Gesù per i fratelli. Solo morendo a me stesso posso diventare Luce.

 

[Riguardo alle domande che sono arrivate in un secondo momento]

Carissimi seminaristi, quando avevo già preparato questa conversazione con voi, mi sono arrivate altre vostre domande alle quali oggi non riesco a rispondere. Spero che quanto abbiamo potuto condividere in quest’ora possa essere di luce in qualche modo anche per queste domande. Le porterò con me come vostri interrogativi molto esistenziali dai quali lasciarci interrogare nel nostro servizio al Dicastero. E le porterò al Signore nella preghiera, chiedendogli di guidarci e illuminarci col suo Spirito.

 

Vorrei incoraggiarvi ad andare avanti con fiducia, anche se i tempi sono difficili. La chiamata al ministero è stata rivolta da Gesù stesso agli Apostoli ed è stata trasmessa attraverso l’imposizione delle mani lungo tutta la storia della Chiesa. Una Chiesa sinodale non sostituisce il servizio indispensabile del ministero ordinato ma lo completa con la partecipazione attiva di tutti i battezzati alla comune missione.

 

Forse possono essere indicazioni utili anche per voi tre suggerimenti che Papa Francesco ha dato pochi giorni fa a tutti i parroci del mondo:

1. Vi invito a vivere il vostro specifico carisma ministeriale sempre più al servizio dei multiformi doni disseminati dallo Spirito nel Popolo di Dio […] e che sono indispensabili per poter evangelizzare le realtà umane. Sono convinto che in questo modo farete emergere tanti tesori nascosti e vi troverete meno soli nel grande compito di evangelizzare, sperimentando la gioia di una genuina paternità che non primeggia, bensì fa emergere negli altri, uomini e donne, tante potenzialità preziose.

2. Con tutto il cuore vi suggerisco di apprendere e praticare l’arte del discernimento comunitario, avvalendovi per questo del metodo della “conversazione nello Spirito”, che ci ha tanto aiutato nel percorso sinodale e nello svolgimento della stessa Assemblea. Sono certo che ne potrete raccogliere numerosi frutti non solo nelle strutture di comunione, come il Consiglio pastorale parrocchiale, ma anche in molti altri campi. […]

3. Infine, vorrei raccomandarvi di porre alla base di tutto la condivisione e la fraternità fra voi e con i vostri Vescovi. […] Non possiamo essere autentici padri se non siamo anzitutto figli e fratelli. E non siamo in grado di suscitare comunione e partecipazione nelle comunità a noi affidate se prima di tutto non le viviamo tra noi. […] solo così siamo credibili e la nostra azione non disperde ciò che altri hanno già costruito».

 

9. Quale messaggio importante Lei intende affidarci (per l’ulteriore cammino di formazione)?

Vi lascerei quello che mi ha aiutato tanto durante la preparazione al sacerdozio e mi accompagna fino a oggi. Un solo libro: il Vangelo. Una sola legge: il comandamento nuovo dell’amore vicendevole. Un solo Maestro: Gesù fra noi.

È la via per poter affrontare alla radice tutte le sfide che incontrerete e realizzarvi in pienezza nella vostra chiamata.

 

Grazie del vostro ascolto!