XV Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Dt 30,10-14 Sal 18 Col 1,15-20 Lc 10,25-37

Clerus
13 luglio 2025

«Ci caricò sul suo giumento, cioè ci prese nella sua carne;

ci condusse all’ospizio, cioè alla Chiesa;

ci affidò all’albergatore, cioè ai suoi inviati;

e perché fossimo curati tirò fuori due denari,

cioè i due precetti della carità:

la carità di Dio e quella del prossimo».

Sant’Agostino, Esposizione sul Salmo 125, 15

Narcisisti in corsa

Nell’epoca del narcisismo facciamo fatica a vedere gli altri. Siamo troppo concentrati su noi stessi, sulla nostra immagine e la nostra performance, sui nostri diritti e sulla nostra affermazione personale: vengo sempre prima io e non mi faccio mettere i piedi in testa!

Nell’epoca della velocità non c’è mai tempo per fermarsi e per accorgersi di quello che sta accendendo intorno noi. Non riusciamo più a vedere chi sta male, chi chiede aiuto silenziosamente, chi non riesce più a gridare. Il nostro viaggio è sempre più importante. Questa involuzione antropologica non tradisce solo il messaggio del Vangelo, che insiste sulla compassione e sul dono di sé, ma impedisce anche la nostra piena realizzazione come persone: noi ci realizziamo pienamente solo nel momento in cui cresciamo nell’amore, solo quando guardiamo fuori di noi, solo quando diventiamo dono per qualcuno. La vita umana è fatta per generare non per rimanere chiusa dentro il guscio dell’io.

Ripiegati e soli

La parabola, raccontata da Gesù al dottore della Legge nel Vangelo di Luca, ha soprattutto lo scopo di aiutarlo a crescere in umanità. Quest’uomo ha svilito la sua umanità perché si è perso dietro al tentativo di affermare sé stesso ingannando gli altri: vuole mettere alla prova Gesù, perché in fondo questo è diventato il suo stile di vita. Ridicolizzare, mettere in difficoltà, dimostrare che è più furbo.

Oggi siamo ancora lì, basta guardarsi intorno per accorgersi quanto questo modo di interagire con gli altri sia diffuso e accettato. Ma quest’uomo si è perso anche nella sua solitudine: non sa più chi sia il suo prossimo, cioè non riconosce più chi gli sta vicino. È l’unica cosa che chiede a Gesù, ammettendo di non capire: «e chi è il mio prossimo?».

È così abituato a vedere solo sé stesso da sorprendersi che esista qualcuno che sta vicino a lui. Gesù lo invita a uscire dal suo io e a porsi una domanda diversa: non si tratta di capire chi mi sta vicino, ma di uscire per essere vicino a qualcuno. Quest’uomo è in fondo come un bambino che non si sente amato, perché gli sembra che nessuno sia vicino a lui. Gesù lo aiuta a capire che per sperimentare l’amore occorre andare verso gli altri, senza rimanere sempre e solo ad aspettare che gli altri si ricordino di noi.

Gli incroci della vita

Per aiutarlo a percorrere questo itinerario di conversione, Gesù gli racconta una parabola. Lo sfondo del racconto è una strada, simbolo di quel viaggio che rappresenta la vita di ciascuno di noi. Ma la strada è fatta anche di incroci dove la nostra vita attraversa quella degli altri.

Un sacerdote e un levita scendono infatti da Gerusalemme a Gerico, dal Tempio agli abissi. È probabile che Luca alluda al fatto che a Gerusalemme il sacerdote e il levita hanno trascorso il loro turno di servizio nel Tempio a contatto con il sacro. Eppure, quando la loro vita si incrocia con quella di un uomo lasciato mezzo morto sulla strada vedono, ma non si fermano, come per dire che culto e compassione non vanno necessariamente insieme. Non c’è un automatismo. Nonostante la nostra frequentazione delle cose sacre, non è detto che automaticamente questo ci renda persone capaci di compassione.

Questione di umanità

Al contrario un samaritano che percorre quella strada, certamente non per motivi religiosi, perché i samaritani celebrano il loro culto sul Garizim, si ferma davanti a quest’uomo ferito dalla vita. L’uomo mezzo morto non dice nulla, quindi non è possibile capire chi sia, a quale etnia appartenga. Ci viene presentato semplicemente come un uomo, perché questo basta all’amore. Quello che ci spinge a fermarci è l’umanità.

Prendersi cura

Il samaritano si prende cura dell’uomo mezzo morto con dei gesti concreti: si fa vicino, cura le ferite, lo solleva, lo accompagna, lo affida a chi si può prendere cura di lui. Paga per lui: due denari ovvero due giornate di lavoro. Né poco né molto. È quanto basta in quel momento. Non siamo chiamati a fare sempre i supereroi! Il samaritano non se ne lava le mani dopo essersi messo a posto la coscienza: non è semplicemente la buona azione quotidiana, fatta più per me che per l’altro. Il samaritano pensa anche al futuro: si impegna anche per domani: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». Non sempre siamo chiamati a essere il samaritano, forse oggi siamo l’albergatore, che per un po’ di tempo è chiamato a prendersi cura di qualcuno.

Capaci di fermarsi

Alla fine di questo racconto, nasce in noi la domanda: «e io, sarò capace di fermarmi?», che vuol dire: «e io, sono umano?». Credo che riusciremo forse a fermarci solo quando avremo capito che l’uomo mezzo morto sulla strada prima di tutto siamo noi. E Gesù, buon samaritano, tante volte si è fermato per prendersi cura di noi. Chi non lo capisce, non si ferma.

Leggersi dentro

-       Ricordo dei momenti della vita in cui ero ferito, abbattuto, e il Signore si è preso cura di me?

-       Sono capace di andare incontro agli altri o aspetto sempre che gli altri pensino a me?