Prefazione del Cardinale Lazzaro You Heung-sik per il volume: La luce che mi colpì. Biografia di Silvano Cola.
«La Luce che mi colpì». Sì, don Silvano Cola era così: un uomo di luce; portava luce e donava luce, perché era stato colpito da una luce. Una luce che abbracciava tutto e tutti. Ho ancora nelle orecchie quanto disse il 30 aprile 1982 a 7.300 sacerdoti, religiosi e seminaristi radunati nell’Aula Paolo VI in Vaticano. Ricordando senza illusioni le problematiche della Chiesa e della vita sacerdotale nel mondo di oggi, dichiarò: «Tutto questo è mio». E spiegava: «Ho capito in verità cos’è il sacerdozio, perché è proprio con l’abbandono e la morte in croce che Gesù ha generato la Chiesa assumendo in sé il peccato e il dolore universale». Da qui l’orientamento della sua vita: «mia è dunque la lacerazione tra le Chiese cristiane, mio il disorientamento dottrinale, mia l’incomunicabilità tra prete e vescovo, tra prete e prete, tra prete e laico, mia l’incomprensione del celibato, mia la tentazione razionalista, mia la menzogna esistenziale tra il predicato e il vissuto, mia la solitudine dei preti...». E concluse: «Ma tutto questo dolore è Gesù, è il suo dolore, è proprio quel dolore sacerdotale che, se accettato e amato, genera la Chiesa!».
Avevo allora 31 anni ed ero stato ordinato sacerdote da poco. Avevo incontrato don Silvano nove anni prima, nella Corea del Sud, quando, a metà del percorso in seminario, ero stato chiamato come tutti per tre anni al servizio militare. Era nel 1973. Don Silvano era venuto in Corea per incontrare i sacerdoti e seminaristi che avevano conosciuto e fatto proprio il carisma dell’unità proposto da Chiara Lubich. Uno di loro ero anch’io. Approfittai di un giorno libero e la mattina ho lasciato la caserma per incontrare don Silvano. Rimasi colpito dal sorriso che emanava dal suo volto, non solo dalle labbra ma anche dai suoi occhi. Un sorriso che non era di circostanza ma nasceva dal profondo del suo cuore, mi accoglieva e mi conquistava. Non sapevo spiegarmelo, ma mi ha fatto un’impressione profonda.
Pochi mesi dopo mi sono ritrovato a Roma, per continuare la formazione al sacerdozio con un anno alla Scuola sacerdotale del Movimento dei Focolari, che allora si trovava a Frascati nei Castelli Romani; un anno che, col benestare del mio vescovo, si è prolungato fino al dottorato in teologia. Fu un’esperienza straordinaria, fortemente comunitaria, che coinvolgeva tutto il nostro essere e improntava la nostra vita con il Vangelo. Dalla mente e dal cuore fino alle tasche, al punto che era logico attuare fra noi, che venivamo dal mondo intero, la comunione dei beni. Imparai per sempre che il cristianesimo è ricco di implicazioni concrete e reali. Un’esperienza profetica nella quale ho potuto maturare la mia vocazione radicandomi sempre più in Dio e dilatando il cuore su persone di ogni cultura e condizione sociale.
Don Silvano aveva avviato quest’esperienza e continuava a seguirla. Pur abitando, insieme ad alcuni sacerdoti, in un’altra casa da dove curava i rapporti con presbíteri e seminaristi nel mondo intero, veniva regolarmente a trovarci. Non ricordo tanto le sue parole e le sue conversazioni, ma quello che si è impresso nel profondo del mio essere era il suo atteggiamento fraterno e accogliente verso ogni persona, il rapporto semplice e profondo che costruiva con ciascuno di noi e, appunto, il suo sorriso col quale affrontava anche situazioni complesse e dolorose. Ero ed eravamo a contatto con un uomo che impersonava il leitmotiv di quell’esperienza: un solo libro – il Vangelo; una sola legge – il comandamento dell’amore vicendevole; un solo Maestro – Gesù.
Rimane indimenticabile per me ciò che avvenne nel giorno della mia ordinazione. Quando eravamo tornati in sagrestia, don Silvano mi si avvicinò e mi mise attorno al collo una catenina con la croce d’oro. «Questo è il tuo Sposo», mi disse. Come a dire: questo è il tuo fedele compagno di viaggio, colui col quale condividere tutto e da ravvisare in ogni circostanza dolorosa, la chiave per rendere feconda la tua esistenza e il tuo ministero. Vivi la tua vita con lui! Una consegna che ha orientato la mia storia e mi accompagna tuttora. È su di lui, su Gesù crocifisso e abbandonato, che si deve misurare il mio sacerdozio.
Oltre ad essere sacerdote, Silvano Cola era anche psicologo. Aveva una spiccata percezione della valenza antropologica e anche psicologica del Vangelo. Vi trovava le leggi fondamentali dell’esistenza personale e della vita sociale, la via alla piena realizzazione umana. Gesù è l’Uomo, ribadiva. Un’affermazione da tener in gran conto in questo nostro tempo in cui si insiste tanto sulla psicologia. Forse per questo ha saputo aiutare molte persone e anche molti sacerdoti in difficoltà che i vescovi gli affidavano. Sapeva far sperimentare che la vita di comunione risana e salva e che l’evangelico saper perdere, il saper con-morire e con-risorgere con Cristo, è l’unica via per vivere in pienezza. Suscitando fra i sacerdoti un’autentica vita di famiglia, li rendeva esperti di fraternità e li portava a scoprire il senso vero del celibato: vivere per una famiglia più grande. Una passione che mi accompagna fino a oggi: “far casa” con i sacerdoti, far sì che siano famiglia e rendano la Chiesa famiglia.
Con lo sguardo su Gesù crocifisso e abbandonato, don Silvano era pure un esempio eccezionale di misericordia. Quando qualche sacerdote non ce la faceva e lasciava il ministero, non esitava ad aiutarlo concretamente e teneva comunque vivo il rapporto. Anche in questo egli mi è stato di esempio. Quando da vescovo dovevo affrontare difficoltà coi sacerdoti, mi veniva spontaneo pensare a lui e ad affidargli quelle situazioni. E allora capivo che cosa fare.
Ai sacerdoti don Silvano continuava a indicare il sacerdozio regale come indispensabile fondamento del ministero: il dono di sé al Padre per tutti, sull’esempio di Gesù in Croce. Fece così anche quando, alla fine degli studi a Roma, andai a salutarlo prima di tornare in Corea. Mi disse: «Tu sai cosa devo fare». E io, in effetti, sapevo che cosa fare – non cercare altro che la volontà di Dio – e che non sarebbe stato un compito semplice, perché l’avevo visto in lui. Aggiunse: «Cerca di tornare qui ogni anno». Così ho fatto. E ogni volta gli ho portato un regalo. Un anno è stata una bella maglia. Tutto contento, l’ha subito indossata. Il pomeriggio di quello stesso giorno, però, l’ho vista addosso a un altro sacerdote. Intuendo il mio stupore, don Silvano mi ha preso da parte e mi ha detto: «Tu l’hai data a me, ma non ti preoccupare…». Era così: parco con sé stesso e generosissimo con gli altri.
Scrivendo queste righe, mi rendo conto di quante cose mi ha lasciato in eredità, tra cui anche la sua nobile attenzione al ruolo delle donne: le trattava con grande stima, come sorelle. Tutto ciò e tanto altro, Silvano Cola l’ha tratto dal carisma dell’unità e l’ha saputo tradurre in vita personale e pastorale, diventando così un esempio di cosa significa essere sacerdote in una Chiesa sinodale, missionaria e misericordiosa. Penso che la sua vita abbia molto da dire a ogni sacerdote, specie nel tempo di oggi, e non solo ai sacerdoti. Non a caso, il passo della Scrittura nella quale Chiara Lubich ha visto fotografata al meglio la persona di don Silvano erano le parole con cui Paolo mette in luce l’accoglienza della Parola di Dio da parte dei Tessalonicesi, anche in mezzo a grande tribolazione: «…così da diventare modello per tutti i credenti» (1 Ts 1, 7). Nutro la viva speranza che la testimonianza esemplare di questo uomo e sacerdote dal cuore grande possa essere conosciuta sempre di più e che questo libro, così ben scritto e documentato, possa essere strumento per questo fine.
Roma, 1° novembre 2024
Festa di tutti i Santi
Lazzaro card. You Heung sik
Prefetto del Dicastero per il Clero