XXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Nm 21, 4-9; Sal 77; Fil 2, 6-11; Gv 3, 13-17.

Clerus
14 settembre 2025

«Chi è stato esaltato se non chi era stato umiliato?

Guardalo umiliato e guardalo esaltato.

L’Apostolo te lo presenta in tutti e due i modi.

Fu esaltato fin dall'inizio, poiché in principio era il Verbo»,

Sant’Agostino, Discorso 265/E, 2.

 

 

Amore concreto

L’amore chiede gesti concreti: “è da porre più nei fatti che nelle parole”, diceva sant’Ignazio negli Esercizi spirituali. Le persone che amano di più spesso sono quelle più silenziose, come una mamma che non pensa minimamente a mostrare o rivendicare quello che ha fatto per il figlio. L’amore non si chiede neanche perché, ama e basta: in quel dono si ritrova e si realizza. Forse per questo non ci rendiamo conto dell’amore di Dio per noi, perché è un amore discreto, che non fa rumore, non strepita e non rivendica attenzione. La croce è il segno silenzioso di questo amore. Per amare occorre perdere un po’ del nostro io: se il nostro io occupa tutto lo spazio, non riusciamo ad amare. Il narcisista non ama. Al contrario, come ci ricorda la lettera ai Filippesi: Cristo svuotò se stesso, si è donato completamente per amore (Fil 2,7).

 

Nel sangue

Nel mondo antico per realizzare un’alleanza tra due contraenti era necessario uccidere un animale, nel cui sangue veniva sancita la promessa. Troviamo un riferimento a questa pratica nella lettera agli ebrei: “Secondo la legge, quasi ogni cosa è purificata con sangue; e senza spargimento di sangue non c'è perdono” (Eb 9,22). Gesù è dunque l’agnello sacrificato, nel cui sangue Dio ha realizzato l’alleanza con l’umanità, un’alleanza eterna perché fatta nel sangue del figlio, una promessa che non può venire meno. Dio ha promesso di amarci per sempre fino in fondo. Se l’alleanza è eterna, eterna deve essere anche la nostra vita. La morte rimane un passaggio necessario, connesso alla nostra dimensione creaturale, ma non è l’ultima parola. La croce diventa porta attraverso cui si spalanca l’eternità. Nella croce di Cristo, impariamo a consegnarci al Padre.

 

Paura di morire

La paura di morire attanaglia la nostra vita: la paura di morire è la paura di non farcela, la paura di fallire, la paura di perdere. Ecco perché guardando alla croce, ritroviamo la speranza per continuare il nostro cammino. Tutte le nostre paure sono state sconfitte, perché è stata sconfitta la sua radice, cioè la morte.

Questa vittoria è già adombrata nell’esperienza del popolo di Israele nel deserto: il deserto è l’immagine della vita, la fatica del viaggio, la paura di non trovare nutrimento per andare avanti, la paura di sbagliare strada e di perdersi. Quando ci si fissa sulle paure, permettiamo ad esse di prendere corpo. Israele si spaventa e le sue paure diventano serpenti, che, proprio come le paure, avvelenano e si insinuano in modo subdolo.

 

Guardare

Dio indica a Mosè l’antidoto per vincere la paura: guardare un serpente di bronzo, innalzato su un’asta. Quel serpente ricorda proprio ciò che fa paura. Il primo passo per vincere le nostre paure è infatti guardare in faccia quello che ci spaventa, dare confini, riconoscere. Gesù riprende questa immagine, perché nel sacrificio della croce noi possiamo ritrovare il coraggio per affrontare le nostre paure. Una volta che in Cristo la morte è stata vinta, non c’è più nulla che possa spaventarci. Da quel momento in poi, tutti i crocifissi della storia si potranno sentire capiti e accolti, perché un altro li ha preceduti nel loro destino.

 

Leggersi dentro

 

-       Cosa senti guardando la croce?

-       Che cosa ti spaventa di più in questo momento della vita?