II Domenica di Pasqua - Anno C

At 5,12-16 Sal 117 Ap 1,9-11.12-13.17-19 Gv 20,19-31

Clerus
27 aprile 2025

«Signore mio e Dio mio! 

Vedeva e toccava l’uomo,

ma confessava Dio che non vedeva né toccava.

Attraverso ciò che vedeva e toccava,

rimosso ormai ogni dubbio,

credette in ciò che non vedeva».

Sant’Agostino, Omelia 121, 5

La fatica di credere

Nella vita reale non ci sono automatismi: non ci si fida immediatamente, non si crede senza esitazione, non si comincia ad amare accendendo un interruttore. Tutto passa attraverso dubbi, domande e incertezze. La fiducia è un cammino che comincia con il rischio. L’affetto è il frutto di un percorso che passa anche attraverso vie secondarie, smarrimenti e ritorni.

Anche la fede, come ci mostra l’esperienza dei primi discepoli, non è un evento automatico o immediato. I racconti delle apparizioni del Risorto descrivono discepoli che sperimentano la fatica di credere, presi dalla paura e dal dubbio. Ognuno di loro ha bisogno di percorrere una strada per arrivare a credere nella risurrezione. Ognuno parte da un punto diverso, parte dalla situazione che sta vivendo e da quello che si porta nel cuore.

Porte chiuse

Come ben sappiamo però la paura frena tante volte i nostri slanci, sia affettivi che spirituali. Il brano del Vangelo di questa domenica condensa queste paure attraverso l’immagine delle porte chiuse del Cenacolo, un luogo che somiglia molto al nostro cuore. È infatti il luogo in cui Gesù ha consegnato la sua vita e l’ha consegnata anche all’amico che lo tradiva. È il luogo in cui Gesù ha parlato e insegnato nell’intimità della relazione. Ora quel luogo sembra paradossalmente un sepolcro abitato dalla morte, chiuso e buio. Al contrario il sepolcro di Gesù è vuoto, aperto, ed è diventato lo spazio di un annuncio di vita.

Il posto di Gesù

Gesù non si rassegna davanti alle nostre paure e davanti alle porte chiuse del nostro cuore. Entra nonostante le porte chiuse e sta in mezzo, al centro, nel luogo che gli spetta e che tante volte gli abbiamo tolto. Sta nel mezzo della comunità, in mezzo alla Chiesa, riappropriandosi di quel posto che tante volte abbiamo invece dato ad altri o di cui ci siamo impossessati.

 

 

 

Accogliere la pace

In quel luogo, in quei cuori abitati dalla paura, Gesù porta la pace. Sembra però che i discepoli facciano fatica ad accoglierla, perché quel saluto è ripetuto, in questa pericope, per tre volte. E, guardandoci intorno, ci rendiamo conto quanto sia difficile e non scontato accogliere questo dono, perché la pace impegna, impegna in particolare al perdono. Dal dono della pace, nasce l’impegno per la Chiesa a portare il perdono: una comunità che non è capace di perdono è prima di tutto una comunità che non trova pace in sé stessa. Un cuore che non è capace di perdono è un cuore che non trova pace.

Testimonianza e responsabilità

Nonostante l’incontro con il Risorto, nonostante Gesù abbia attraversato le porte chiuse del cuore, dopo otto giorni quelle porte sono ancora chiuse. Il Cenacolo è ancora abitato dalla paura e dalla sfiducia: c’è ancora un cammino da fare, una conversione da intraprendere, la fede non è automatica.

Chi vede questa comunità spaventata, chi osserva questo Cenacolo con le porte chiuse, perché dovrebbe credere che quelle persone hanno davvero incontrato il Risorto? La comunità, il credente, ha una grande responsabilità. Tommaso non ha infatti tutti i torti: perché dovrebbe credere che i suoi compagni hanno incontrato Gesù Risorto se li vede ancora pieni di paura e chiusi dentro?

Increduli e credenti

Tommaso è detto ‘didimo’, termine che possiamo tradurre come doppio o gemello. Entrambe le parole ci aiutano a capire qualcosa in più. Tommaso, infatti, è doppio perché alterna fede e incredulità: un po’ non crede, un po’ crede, un po’ si allontana dalla comunità, un po’ ritorna. Ma è anche gemello, cioè ha un altro che gli somiglia e quell’altro sono io: nella mia incredulità, nella mia esitazione, sono come lui!

Le ferite non sono inutili

Questo cammino di riconoscimento, di scoperta e di apertura, avviene non attraverso l’immagine migliore più riuscita, ma attraverso le ferite: Gesù si fa riconoscere attraverso le sue piaghe. E ci insegna così che le ferite della nostra vita non sono inutili, ma costituiscono la nostra identità, dicono chi siamo, raccontano la nostra storia. E l’amore deve partire da lì: dal contemplare e riconoscere le ferite dell’altro. Quando si ama, non si cercano le prove, ci si fida: perciò sono beati, cioè felici, coloro che non hanno bisogno continuamente di mettere il dito nella piaga dell’altro per potergli credere! Tommaso, come noi, sta imparando ad amare.

Leggersi dentro

-       In che condizioni sono le porte del mio cuore? Chiuse per la paura? Socchiuse o spalancate?

-       Sono capace di donare il perdono o non trovo pace in me?