Chiara D'urbano - L’URGENZA DELLA FORMAZIONE INTEGRALE: LA DIMENSIONE AFFETTIVA
Prima di entrare nel vivo del mio contributo, ritengo importante esplicitare il mio punto di osservazione: da psicoterapeuta ho il privilegio di conoscere e affiancare storie e volti di sacerdoti e religiosi, giovani in discernimento e in formazione, dalle provenienze più diverse. Questa relazione, quindi, attinge soprattutto alle esperienze di vita che accompagno, gioie e sofferenze.
La teoria e gli studi, certo, sono imprescindibili in quanto ci aiutano a ripensare alcune categorie abituali con cui è stata compresa sia la formazione sacerdotale, che l’affettività dei presbiteri, ma rimarrebbero astratti senza un’integrazione esperienziale, che è costituita dalle risposte pervenute attraverso il Sondaggio inviato dal Dicastero alle diverse Diocesi nel mondo, e la vita concreta di sacerdoti diocesani, religiosi, missionari che incontro.
Consentitemi ancora una premessa, che riguarda la stima per la vostra vita di dono, di preghiera e di servizio, talvolta in condizioni difficilissime e in situazioni sociali marginali, dove siete poco riconosciuti e apprezzati, quando non perseguitati.
Siete una presenza coraggiosa e paradossale che aiuta tutti noi a non perdere la speranza, a guardare oltre la storia del momento presente così complicata e dolorosa. Dunque: grazie. Esprimo sincera gratitudine. Spero che ciascuno di voi possa sentirsi almeno in parte riconosciuto.
Parlo da psicologa credente, cercando di mettere in dialogo le scienze umane e l’antropologia cristiana.
Il mio intervento toccherà 2 punti: 1) La formazione permanente che propongo come “intervisione” cioè come confronto tra pari 2) L’espressione “integrale” come nuova attenzione sia alla dimensione affettiva del presbitero che alla responsabilità dell’ambiente circostante. Ci tengo molto a questa attenzione congiunta. Presbitero e ambiente circostante.
In entrambi i punti emergerà l’urgenza del dover ripensare la Formazione Permanente.
1) I punto
Dico subito che all’espressione “formazione permanente” preferisco quella di accompagnamento. Accompagnamento continuativo e reciproco. Perché “formazione permanente” mi sembra che rimandi ad un modo unilaterale di intendere il tempo che segue l’ordinazione sacerdotale. Da una parte c’è il soggetto che fornisce la prestazione (scusate l’espressione tecnica), spirituale, psicologica o culturale / dall’altra c’è il destinatario.
La Diocesi, l’Istituto, l’equipe formativa, in genere, sono gli organizzatori di giornate di ritiro, Esercizi spirituali, e incontri con un esperto, mentre il sacerdote è il ricevente.
La riuscita di questi progetti formativi ricade, quindi, sulla combinazione di una buona offerta, e di una risposta che deve essere consapevole e responsabile, cioè il sacerdote deve aderire e partecipare a quanto viene organizzato.
Questo modo di leggere e organizzare la formazione permanente, ovviamente, è valido, ma insufficiente – non è integrale – come i diretti interessati spesso riportano: “questi incontri non toccano la vita”; “non è quello di cui abbiamo bisogno”. Si verifica, infatti, uno scollamento, o comunque uno scarto, tra la cosiddetta formazione permanente, come viene compresa e proposta, e la vita reale con le sue complessità, soprattutto nell’epoca attuale, da qui l’“urgenza” di ripensamento.
Parlando in termini di Sistemi Motivazionali – cioè quell’insieme (universale e naturale) di attività mentali che regolano comportamenti ed emozioni in vista di una meta, la formazione permanente, almeno nella comprensione “classica”, mi pare sia orientata prevalentemente dal Sistema di Accudimento, quello che muove un caregiver a prendersi cura dei membri più deboli del proprio gruppo, il bambino, il cucciolo. Si potrebbe dire: “tu hai bisogno perché sei vulnerabile e io ti soccorro”, e da quello chiamato di Rango “tu non sai abbastanza e io ti offro del materiale competente, essendo più preparato di te”. Entrambi questi Sistemi sono indispensabili e quindi molto significativi.
Molto meno, però, si attiva il Sistema Cooperativo Paritetico[1], per cui insieme ai diretti interessati si cerca di ascoltare cosa possa essere veramente utile per loro.
In termini di Sistema Cooperativo – cito due Autrici – si potrebbe dire: “Quando hai un obiettivo importante da raggiungere, cerca un tuo simile che abbia il tuo stesso obiettivo e mettiti d’accordo con lui per cercare di raggiungerlo insieme”[2]. Il cooperativo spinge due membri della stessa specie – in questo caso Diocesi, Istituto e presbiteri – che condividono un obiettivo comune – il benessere dei sacerdoti, perchè è a questo che è rivolta tutta la riflessione – ad accordarsi, perché solo se ci si allea si può raggiungere la meta.
Il Convegno si pone in questa prospettiva: insieme, confrontandoci da prospettive diverse e interculturali, si possono tirare fuori idee e proposte. Insieme.
D’altro canto mi pare essere debole, perchè poco allenato, anche un altro Sistema tipicamente umano, quello intersoggettivo, che spinge la persona a condividere solo per la gioia di farlo, “se questo interessa me, può interessare anche te”[3]. L’attitudine alla condivisione, tra i presbiteri di uno stesso territorio, che significa ascolto e confronto tra pari, sia per il gusto di stare insieme, sia per pensare come gruppo una modalità di accompagnamento reciproco, è piuttosto fiacca, almeno in Europa. Solo che questa disposizione a condividere non si può improvvisare, va preparata nel tempo. Fin dall’inizio del cammino vocazionale la persona dovrebbe sentirsi coinvolta attivamente nella sua formazione, per poi esserlo successivamente, fuori dalla struttura formativa, cioè dovrebbe riuscire a pensarsi dall’inizio come soggetto agente e non come semplice ricevente.
E sviluppare un senso di appartenenza alla missione, alla Diocesi, all’Istituto, perché la vocazione non è individuale e non è per se stessi, e solo insieme può essere portata avanti.
Assumere una prospettiva più collaborativa e intersoggettiva, significa, quindi, sganciare il tema dell’accompagnamento da un atteggiamento che rischia di essere paternalistico, e far sperimentare ancora di più ai sacerdoti la bellezza di sentirsi protagonisti della propria chiamata.
2) II punto
Si inserisce bene nel nostro itinerario l’aspetto dell’affettività, la seconda parte del mio contributo. L’urgenza e l’integralità dell’accompagnamento del dopo-formazione incontra necessariamente questa dimensione. Raccogliendo le esperienze dei presbiteri delle età più diverse, e dei giovani, in effetti, è uno dei temi emergenti. Oggi si avverte il bisogno di far uscire dal silenzio tutto quello che appartiene al modo di essere e di amare, di stare in relazione, di stringere amicizie, del sacerdote.
L’affettività è questa: essere, amare, stare in relazione.
Tuttavia, di nuovo, non possiamo concentrarci solo sull’individuo, senza allargare la riflessione anche all’ambiente, Chiesa e Comunità cristiana, che condiziona la comprensione dell’affettività del presbitero. C’è una corresponsabilità che va tenuta presente.
Cosa ci si attende dal sacerdote? Quale modello sacerdotale la società ha in mente? Quali caratteristiche dovrebbe avere o non avere? Penso che siano domande urgenti, appunto, perché sono quelle che orientano lo sguardo del presbitero su se stesso, e il nostro sguardo, della comunità, su di lui. Di conseguenza condizionano sia la formazione iniziale che quella successiva.
Per molto tempo la figura del sacerdote è stata caricata di un idealismo, non di un idealità, schiacciante. Siamo usciti, finalmente, o almeno stiamo uscendo – ce lo auguriamo – dall’idea del sacerdote senza corpo e senza passioni umane, che si dedica agli altri privo di esigenze personali, riposo, desideri, amicizie, svago.
Non facciamo del bene, come comunità, a idealizzare così il sacerdote, perché lo costringiamo a stare dentro una forma fittizia, gli imponiamo un giogo pesante e ingiusto. Dal sacerdote ci si aspetta che debba essere sempre disponibile, capace tanto di organizzazione, quanto di economia, perdendo di vista non solo la dimensione di fede che fonda questa vocazione per cui il sacerdote non è un manager, ma soprattutto la sua umanità che condivide con gli altri uomini e donne.
Teniamo, inoltre, presente che il celibato spesso viene additato come colpevole quando ci sono situazioni di crisi, così come all’orientamento omoaffettivo viene spesso attribuita la radice dei disagi nella vocazione presbiterale, mentre è la non-integrazione del mondo degli affetti e delle relazioni a compromettere l’equilibrio della persona.
Ripensare la dimensione affettiva della formazione permanente significa, quindi, interrogarci, come Chiesa, sulla figura del sacerdote del III millennio.
Qui l’apporto delle scienze umane è irrinunciabile, perchè ci aiutano a comprendere attraverso quali coordinate passa l’equilibrio della persona, e quali sono necessarie perchè l’affettività, quindi anche quella del presbitero, possa essere integrata nella scelta vocazionale.
Ho individuato, per brevità, solo alcune coordinate molto concrete che favoriscono l’integrazione dell’affettività, mantenendo sempre l’attenzione sia sulla persona che sull’ambiente circostante.
- La prima coordinata riguarda la conoscenza di sé, che è sostenuta dalla possibilità di aprirsi con persone di fiducia su affetti, sessualità, orientamento sessuale, fin dalla prima formazione, senza timori di giudizi. I “non detti” per paura, rimangono non-accompagnati. Più la persona è messa in condizione di conoscersi e di aprirsi, meno dovrà mettersi sulla difensiva, magari nascondendo aspetti personali che teme sarebbero giudicati male, e quindi meglio sarà accompagnata nella sua vocazione. I sacerdoti che hanno una buona conoscenza e alleanza con la propria affettività, sono meno a rischio di crisi o burn out.
L’ambiente. È necessario che chi accompagna sia preparato al compito. La conoscenza riduce timori e pregiudizi. Non servono degli esperti, dei tecnici, servono, però, persone che sappiano essere accoglienti e aperte ai processi nuovi del nostro tempo. Lo stesso impegno dovrebbe essere della comunità cristiana che va formata alla comprensione della figura del presbitero.
- La seconda coordinata che ho individuato è la capacità relazionale. Saper creare buone e affettuose relazioni trasversali, cioè con confratelli e con persone esterne, favorisce un’affettività serena e realizzata. Anche per quanto dicevo sull’accompagnamento, visto come “intervisione”, cioè come condivisione e sostegno mutuo, è necessario che i sacerdoti abbiano tra di loro relazioni di stima e di fiducia reciproca.
L’esperienza prevalente, dalla mia prospettiva, è che nella vita dei presbiteri ci sono sì amicizie buone tra confratelli, ma c’è anche tanta solitudine e diffidenza, che rende difficile, allo stato attuale, immaginare un dopo-formazione collaborativo e di scambio tra pari.
Anche in questo caso se la persona ha la sua parte di responsabilità, ce l’ha anche l’ambiente che può favorire o meno lo spirito di iniziativa personale, consentire margini di libertà e autonomia o essere rigido, aiutare i giovani (per età o per cammino) a maturare i legami di amicizia, indispensabili per la fiducia tra confratelli in futuro, oppure guardare con sospetto le amicizie.
Concludo e insieme propongo una sintesi.
Ripensare la FP vuol dire confrontarsi con una profonda riflessione culturale. Non solo per il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, ma anche perché l’esperienza degli ultimi decenni ci sta aiutando a restituire al presbitero il suo essere prima di tutto un uomo, e poi un uomo “chiamato” che porta avanti un servizio.
Il suo stare bene, il suo essere felice – importante il tema della felicità nella vocazione – dipende dalla maturità personale, ma in egual misura da una sana dimensione fraterna, perché nessuno nella vita senta di procedere da solo, e dalla presenza di comunità che sappiano guardare al presbitero, anche nella bellezza e ricchezza della sua umanità.
[1] Cf. G, Liotti, G. Fassone, F. Monticelli (a cura di) L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. Teoria, Ricerca e Cinica, Cortina, Milano 2017.
[2] Cf. A.R. Verardo, G. Lauretti, Riparare il trauma infantile. Manuale teorico-clinico d’integrazione tra sistemi motivazionali e EMDR, Fioriti, Roma 2020, p.13.
[3] Cf. Ibidem, p. 13.