Stefano Parente - Uomini di Dio in questo nostro tempo : un contributo dalle Chiese Orientali
Il Decreto Orientalium Ecclesiarum del Concilio Vaticano II, pubblicato il 21 novembre 1964, quasi 60 anni orsono, ha ridisegnato con coraggio e lungimiranza la fisionomia e la missione delle Chiese orientali cattoliche. Le stesse circostanze della pubblicazione rivelano che rispetto ad un passato anche molto recente, l’impostazione di fondo era ormai mutata. Il Decreto Orientalium Ecclesiarum è infatti l’anta di un trittico ecclesiologico con la Costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa e con il Decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, pubblicati insieme lo stesso giorno. L’Oriente cristiano viene presentato nell’orizzonte che gli è proprio, cioè eminentemente ecclesiologico.
Il trittico ci dice che la Chiesa è una comunione di Chiese, aperta ad una comunione più ampia con le Chiese e le comunità non ancora in piena comunione, da realizzare attraverso la preghiera e il dialogo. Nonostante i suoi meriti, il Decreto mantiene ancora però qualche ambiguità quando designa le Chiese orientali “riti”. L’equivoco lo risolverà felicemente il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali Cattoliche del 1990 coniando l’espressione Chiesa sui iuris. L’Oriente cristiano non è solo liturgia, e la strada per giungere a ad una effettiva consapevolezza della propria identità è stata molto lunga, sebbene credo che proprio in questi giorni sia finalmente giunto un riconoscimento, atteso e desiderato. Nella Nota “Gestis verbisque” del Dicastero per la Dottrina della Fede, che mi permetto di citare, al paragrafo 5 dell’Introduzione si legge:
“[Il] ... presente documento ... vale per la Chiesa Cattolica nella sua interezza. Tuttavia, le argomentazioni teologiche che lo ispirano ricorrono talvolta a categorie proprie della tradizione latina. Si affida, pertanto, al Sinodo o all’assemblea dei Gerarchi di ciascuna Chiesa orientale cattolica di adeguare debitamente le indicazioni di questo documento, ricorrendo al proprio linguaggio teologico, laddove esso differisca da quello in uso nel testo”.
È chiara qui la consapevolezza, espressa forse per la prima volta in termini così precisi, che nella comunione cattolica è possibile impiegare linguaggi propri per tradurre oggi con le categorie teologiche della propria Chiesa il mistero Dio, della sua rivelazione, e della sua presenza e azione nei sacramenti. La cosiddetta “diversità”, ma è meglio dire “alterità complementare” delle Chiese orientali, in liturgia come nella spiritualità, dipende in ultima analisi da quel “linguaggio teologico proprio” al quale la Nota della Dottrina della Fede ha fatto riferimento. Il documento offre uno strumento metodologico di prima utilità in vista di una auspicata Ratio studiorum orientale.
Noi orientali dovremmo esser i primi a sentire questa consapevolezza, ma non sempre è così. Il percorso è faticoso e non mancano le resistenze. Eppure è in questa prospettiva che siamo chiamati ad essere “uomini di Dio in questo nostro tempo”. Questi uomini di Dio devono affrontare delle sfide comuni ai confratelli della Chiesa latina e allo stesso tempo fare fronte a esigenze di ministero molto particolari, quali, per esempio, la testimonianza e la conservazione dell’identità ecclesiale nella diaspora, il dialogo ecumenico e interreligioso in regime stabile di convivenza con altre Chiese e comunità cristiane. La guerra, il terrorismo, l’instabilità politica sono il pane quotidiano di molte Chiese orientali. Impiego volutamente “Chiese orientali” e non “Chiese orientali cattoliche” perché tutti noi orientali portiamo nel cuore il dramma della divisione insieme alla speranza della comunione e alla certezza di appartenere tutti alla stessa famiglia anche se gli antenati hanno conosciuto il dramma della separazione.
Non è facile, e forse non è neanche possibile, articolare in una manciata di minuti un contributo dalle Chiese Orientali, dato che le tradizioni alle quali fanno riferimento sono ben sette, con accenti fortemente diversi in teologia, liturgia e spiritualità. C’è però un aspetto che le accomuna perché ogni Chiesa è l’espressione di un sistema integrato e integrale dove teologia, liturgia, spiritualità, iconografia e pratiche ascetiche sono tra loro coordinate. Questo aspetto offre un modello interessante all’obiettivo di questa seconda mattinata dedicata alla “formazione integrale”. Così “formazione integrale” per l’Oriente cristiano è formazione ecclesiale.
Mi servo di un esempio preso dalla cronaca degli ultimi mesi. Come sapete, nella Chiesa siro-malabarese dell’India meridionale si è verificata una grave emergenza ecclesiale perché un certo numero di presbiteri e di laici hanno rifiutato di adottare l’ordo unificato che prevede per i ministri la postura ad oriente durante la celebrazione eucaristica. Una presa di posizione così drastica distrugge la circolarità del “sistema integrale” perché la preghiera a Oriente appartiene allo stato profondo della spiritualità orientale, dove e quando questa è vissuta pienamente e con consapevolezza. Le icone dell’“angolo bello” della casa pendono sulla parete orientale con le loro lampade, è a oriente, verso queste icone, che la famiglia prega prima e dopo i pasti, ed è verso oriente che sono disposte anche le sepolture, verso quell’oriente dal quale il Signore tornerà. Questi elementi sono tra loro così concatenati che basta toccarne uno e tutta la costruzione ne risente.
Questa prospettiva “integrale-ecclesiale”, se così la possiamo chiamare, come viene proposta e vissuta nelle Chiese dell’Oriente cristiano, è una scuola spirituale di grande finezza ed efficacia, in quanto evita la frammentazione delle esperienze. La preghiera personale che si nutre della liturgia è preghiera ecclesiale, le pratiche ascetiche della quaresima non sono uno sforzo dell’individuo ma un’ascesi, anche questa ecclesiale, perché non sei tu che stai digiunando ma è la Chiesa che digiuna per andare incontro al Cristo glorioso della notte pasquale. Anche la cosiddetta “spiritualità liturgica” non può che essere ecclesiale. La celebrazione quotidiana e comunitaria della Liturgia delle ore al mattino e al tramonto come momenti di azione di grazie per il mistero pasquale realizzato nel Signore morto e glorificato è molto, molto di più, di una santificazione del tempo. Come per ogni celebrazione della Chiesa, il mistero pasquale non è soltanto l’oggetto del culto ma la fonte stessa del culto.
La celebrazione della Divina Liturgia eucaristica vissuta come esperienza di concelebrazione con ciò che dovrà ancora avvenire ma che nel mistero è già presente. Nella celebrazione orientata colui che presiede si trova dinanzi all’altare, ma dietro l’altare che, almeno nel rito bizantino, è sempre staccato dalla parete, c’è la cattedra, vuota. È a quella cattedra e ella sua capacità evocativa che guardano i ministri. Il presbitero e il diacono orientale sanno che l’esperienza liturgica è prima di tutto esperienza dello stupore e della propria =inadeguatezza. Questa consapevolezza, antica, ha prodotto dei testi che già nel V secolo sono entrati nell’anafora, nella preghiera eucaristica, e che vengono tutt’ora declamati, dove il presbitero in qualche modo si specchia. Permettetemi di citi un passo dall’anafora di s. Basilio:
“Per questo, Sovrano Santissimo, anche noi peccatori e indegni tuoi servi, che tu hai resi degni di celebrare dinanzi al tuo altare santo, non certo per le nostre opere di giustizia, poiché non abbiamo compiuto nulla di buono sulla terra, ma per la tua bontà e la tua misericordia che hai riversato con abbondanza su di noi, ci avviciniamo con fiducia al tuo altare santo, e avendo posto dinanzi a te i segni del corpo santo e del sangue del tuo Cristo, ti chiediamo e ti supplichiamo, Santo dei santi, per il beneplacito della tua bontà venga il tuo Spirito Santo su di noi e sopra questi doni qui presentati”.
La liturgia invita i ministri a riflettere sui propri limiti e ricorda loro continuamente che sono servi dei santi misteri, non i proprietari e tantomeno i protagonisti. La liturgia rende coscienti il presbitero e il diacono che il loro ministero è associato a quello delle potenze dei cieli.
Esiste oggi nella Chiesa una corrente di pensiero alla costante ricerca del “senso del sacro” o “del trascendente” e ne identifica i gelosi detentori nelle Chiese orientali. Molte di queste persone però non hanno mai fatto una vera esperienza orientale. Come scrive Robert Taft, che ha dedicato tutta la vita non solo a studiare l’Oriente cristiano ma a mettersi in ascolto delle sue voci – sono sue parole –, “l’esperienza liturgica orientale è si trascendente, ma non distante, ieratica nei gesti ma non clericalizzata, comunitaria senza essere impersonale, tradizionale ma non formalistica”.
Non voglio omettere in questa sede un riferimento e una parola di apprezzamento per il monachesimo, sebbene oggi nelle Chiese orientali cattoliche le istituzioni propriamente monastiche restano oggettivamente poche. Diverse congregazioni hanno infatti optato per la vita esclusivamente attiva. Ma una Chiesa orientale priva di monachesimo, di un suo monachesimo, è davvero povera e una formazione integrale che lo esclude non è pensabile. Mi sono reso conto di questo aspetto quando qualche anno fa ho iniziato a frequentare il Monte Athos. Lì ho incontrato moltissimi presbiteri che trascorrevano un periodo diciamo così di “ricarica” assumendo i ritmi comunitari di preghiera e di lavoro. Ma l’evento quotidiano era sempre l’incontro con l’Anziano al quale aprire il cuore. E ciascuno di noi sa molto bene che è stato proprio un incontro a decidere la strada delle nostre vite.
I misteri sacri dei quali siamo servitori sono mediati da un sistema simbolico dove l’altare occupa un posto assolutamente centrale. In tutte le ordinazioni maggiori il candidato riceve l’imposizione delle mani stando in ginocchio e tenendo la fronte appoggiata sul lato anteriore della mensa. È un gesto di grandissima profondità: Giovanni poggia la testa sul petto, sul cuore del Maestro e da quel cuore viene la grazia attraverso il ministero della Chiesa. In alcune tradizioni orientali durante i funerali il corpo del sacerdote defunto viene introdotto nel santuario/presbiterio per un ultimo giro attorno all’altare. Presbitero e altare sono legati da un rapporto sponsale indissolubile che con la morte non viene meno perché nella gloria dei salvati egli sarà chiamato a servire l’altare che si trova al di sopra dei cieli. Quando, come nei tempi di dura persecuzione, nell’Europa centro-orientale non era possibile accedere a regolari corsi di formazione e le ordinazioni erano conferite in qualche cantina o in qualche bosco, questi testi e questi riti hanno formato l’identità di generazioni di presbiteri.
La formazione è per la missione, un obiettivo che riguarda specialmente le Chiese orientali cattoliche in diaspora. In questo campo c’è ancora molto da fare. Occorre studiare e attuare quelle forme di integrazione socio-religiosa che non compromettono la propria identità. Le nostre Chiese hanno il diritto-dovere di annunciare il Vangelo nella realtà nella quale si trovano. Così si pone la domanda, interessante, se le Chiese orientali cattoliche possono, o piuttosto, sono disposte ad accogliere e a catechizzare adulti che chiedono il battesimo, provenienti però da altri gruppi etnici. È noto, infatti, che alle Chiese orientali cattoliche dell’India erano state poste una serie di restrizioni in ordine all’annuncio del Vangelo, superate soltanto di recente con la lettera di papa Francesco all’episcopato dell’India (latino, malabarese e malankarese) del 9 ottobre 2017. Un vero progresso delle Chiese orientali cattoliche nella diaspora è però strettamente legato alla creazione sul territorio di strutture ecclesiali proprie che impediscano l’omologazione alla cultura cristiana maggioritaria, la perdita dell’identità e dunque l’impossibilità stessa della missione.
Gli ultimi paragrafi dell’Orientalium Ecclesiarum hanno assegnato alle Chiese orientali cattoliche lo speciale compito di promuovere l’unità dei cristiani d’Oriente. La ricerca della propria tradizione autentica, disciplinare e liturgica, non è possibile a prescindere da un rinnovato interesse al patrimonio in comune con le rispettive Chiese orientali non cattoliche. Tradotto in termini teologici questo significa riscoprire la propria tradizione come luogo di comunione e non di antagonismo o opposizione ideologica. La situazione di diaspora, ieri come oggi, nonostante il carico di problemi e di difficoltà, pastorali, organizzative ed economiche, può essere vissuta come possibilità di voltare pagina, di rompere con il passato, di essere operatori di riconciliazione tra le Chiese cristiane presenti sul territorio e non di esportare e perpetuare all’estero i problemi che ci sono in patria. Queste preoccupazioni dovrebbero trovare un riscontro in una formazione davvero integrale e di una Ratio studiorum per le Chiese orientali cattoliche delle quali si sente sempre più il bisogno. Nel testo che leggo e che ora concludo, ricorre molto spesso il termine “esperienza”: non è un caso ed è voluto. Vocazione infatti è fare esperienza. Ne sapeva qualcosa Filippo, appena chiamato dal Maestro, che chiuse la bocca a Natanaele invitandolo a fare esperienza: Vieni e vedi!