Card. Ravasi Uomini del Vangelo oggi: Discepoli Missionari
È la voce del discepolo missionario Paolo a proporre una via lungo la quale sviluppare la nostra riflessione. Essa ha una sorta di stella polare affidata a una sua parola-guida rivolta ai Corinzi: «Siate miei imitatori, come anch’io lo sono in Cristo» (1Cor 11, 1). È un programma che egli ribadisce ai Tessalonicesi perché «diveniate imitatori nostri e del Signore …, così da essere un modello per tutti quelli che credono» (1Ts 1,6-7). Il motto paolino è semplice, basato sul vocabolo greco mimetái «imitatori», coloro che hanno come «modello» Cristo, un volto che si rispecchia in quello dell’apostolo.
La bocca di Cristo
L’icona ideale che si presenta davanti a noi è, perciò, quella evangelica di Cristo che noi ora cercheremo – necessariamente in modo semplificato – di disegnare con pochi lineamenti tra i tanti possibili. Tracceremo, così, un trittico che ha in ogni suo quadro un segno del corpo stesso di Gesù di Nazareth, consapevoli che il «Verbo è diventato carne» (Gv 1,14) e, quindi, corporeità, esistenza concreta, storia.
La prima componente è la sua bocca: «Gesù, aperta la bocca, insegnava dicendo…»: è l’avvio del “Discorso della montagna” secondo Matteo (5,1), sulla scia dei profeti, uomini della Parola, come suggerisce il termine stesso di origine greca «profeta» e come essi stessi ripetono: «La bocca del Signore ha parlato», esclama ad esempio Michea (4,4). L’avvio del ministero pubblico di Gesù a Cafarnao secondo Marco è scandito per tre volte dal verbo greco didáskein, “insegnare”: «Entrato in sinagoga, insegnava. Ed erano impressionati dal suo insegnamento, perché insegnava loro come chi ha autorità e non come gli scribi» (1,21-22).
Infatti dalla sua bocca escono parole che consolano e che inquietano, che perdonano e che giudicano, che convertono ma che provocano anche il rifiuto. Il cuore del suo vangelo, cioè del suo messaggio di bontà e salvezza, è mirabilmente sintetizzato nella sua prima “predica”, un esempio di essenzialità nel cogliere la dimensione divina e umana della storia della salvezza. Da un lato, l’azione divina: «Il tempo è giunto a pienezza. Il Regno di Dio si è fatto vicino». D’altro lato, la risposta umana: «Convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). Si delinea, così, l’impegno del discepolo ad essere uomo della Parola nella sua sostanza teologica, senza disperdersi in divagazioni moralistiche o secondarie.
Cristo insegna anche la modalità stessa dell’annuncio secondo una comunicazione viva ed efficace, tant’è vero che molti, dopo averlo ascoltato, esclamano: «Maestro, hai parlato bene!» (Lc 20,39). La sua predicazione, infatti, non volava sopra le teste dei suoi uditori in teoremi o tesi astratte, ma paradossalmente partiva dai loro piedi che camminavano lungo le strade della storia. Di scena era il loro orizzonte, fatto di terreni aridi, di semi e seminatori, di messi e erbacce, di vigne e di fichi, di pecore e pastori, di pesci, di uccelli, persino di scorpioni, di venti caldi o gelidi, di piogge e arsure.
Le sue parole entravano nelle piazze coi bambini che giocano, nelle stanze con donne casalinghe e figli difficili, nella società con lavoratori a giornata, debitori e creditori, ricchi egoisti e poveri affamati, magistrati inerti e vedove indifese ma coraggiose, portieri e servi, mense con cibi quotidiani, prostitute e amministratori corrotti, e così via. Le sue 35 (o 72 secondo i diversi calcoli dei generi letterari) parabole sono un modello di comunicazione viva e incisiva, sostenuta da immagini e simboli, un po’ come dovrebbe accadere oggi coi nuovi media legati più alla visione che all’ascolto.
Egli, però, conosce anche la capacità di costruire grandi discorsi catechetici, come lo sono i cinque interventi che reggono il Vangelo di Matteo. Tuttavia, sa anche cogliere il succo del messaggio in frasi essenziali di forte potenza e impatto. Sono i cosiddetti lóghia, “detti”, simili quasi agli odierni “tweet” o “X”, ricchi però di sostanza. Si pensi soltanto alla frase: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mt 22,21). Una manciata di parole che pone una netta distinzione ma non una separazione tra fede e politica, parole sulle quali si sono nei secoli sviluppate una prassi talora degenerata e una discussione infinita che aveva in esse la loro sorgente.
Inoltre, il discepolo missionario deve essere “imitatore” delle parole di Cristo nell’annuncio del Regno di Dio, anche quando si trova di fronte al rigetto. Come ricorda l’evangelista Giovanni, la Parola non può essere incatenata: «Alcuni vollero arrestare Gesù … Ma le guardie tornarono dai capi dei sacerdoti e dai farisei i quali dissero: Perché non l’avete condotto qui? Le guardie risposero: Mai un uomo ha parlato così!» (7,44-46). La Parola di Dio non può essere arrestata e silenziata, ma continua a risuonare anche quando il discepolo, come il Battista, ha il capo mozzato. Anche dalla croce Cristo Maestro continuerà a parlare nei secoli.
Le mani di Cristo
Il racconto del ministero pubblico di Gesù secondo il Vangelo di Marco è occupato per il 47% da narrazioni di miracoli. Le mani di Cristo si stendono spesso per toccare organi paralizzati, corpi devastati o inerti, a curare piaghe, superando anche le leggi sacrali di allora che impedivano la contaminazione. Esemplari, al riguardo, sono le guarigioni dei lebbrosi che erano considerati, per la legge biblica (Lv 13), non solo colpiti da un morbo ma anche scomunicati perché puniti da Dio, a causa di un loro peccato, con una malattia che isolava per timore di infezione. Gesù davanti a un lebbroso «mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: Io lo voglio, guarisci! E subito la lebbra scomparve ed egli guarì» (Mc 1,40-41).
Il miracolo di Gesù non è un atto di prestigio o di magia, non è taumaturgia né spettacolo sotto le luci della ribalta, ma è un atto di fede e di amore, di condivisione nella sofferenza, di speranza, di incontro personale. È per questo che Cristo spesso li compie in disparte dalla folla e imponendo ai miracolati un silenzio che difficilmente è rispettato. Anche il discepolo deve mettersi sulle strade del mondo con la stessa testimonianza della bocca e delle mani: «Partiti, predicavano di convertirsi e cacciavano molti demoni e ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13).
Naturalmente la salvezza offerta non era solo quella corporale. Si apre, così, il vasto orizzonte degli incontri di Gesù coi malati nell’anima. È la lunga sfilata di pubblicani, prostitute, peccatori, posseduti da Satana, infelici che accorrono a lui. Emblematica è la sua dichiarazione dopo la vocazione del pubblicano Matteo-Levi: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati. Andate e imparate cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori» (Mt 9,12-13; cfr. Os 6,6)
È questa la legge fondamentale del suo messaggio morale, il primo comandamento attinto alla Bibbia stessa: «Amare Dio con tutto il cuore, tutta l’anima e tutta la mente…amare il prossimo come sé stessi» (Mt 22,37-39). Anzi, nell’ultima sera della sua vita terrena, nell’addio ai suoi discepoli all’interno del Cenacolo, egli radicalizza la modalità dell’amore, superando quell’amare l’altro «come sé stessi»: «Questo è il mio comandamento: che amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici» (Gv 15,12-13). Ed è in questa luce che il racconto dell’Ora ultima di Cristo nel quarto Vangelo è aperto da quella frase che è stata una guida anche per tanti testimoni cristiani estremi e supremi della loro fede e del loro amore: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
I piedi di Cristo
«Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero della buona novella [vangelo] che annuncia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio!». La celebre proclamazione del profeta Isaia (52,7) è quasi il ritratto del missionario che si avvia per le strade del mondo annunciando il vangelo del Regno di Dio. È, allora, il piede il terzo simbolo del nostro trittico: Gesù, infatti, non solo parla e opera ma è anche impegnato in un costante viaggio apostolico, tanto da non possedere una residenza fissa, e neppure una pietra come guanciale dove posare il capo e sostare (Mt 8,29).
È suggestiva la stessa struttura del Vangelo di Luca per ben dieci capitoli centrali (da 9,51 a 19,28) – il 40% dell’intero testo – è dominato dalla lunga marcia che conduce Cristo dalla Galilea a Gerusalemme fino all’apice della croce e della gloria nell’ascensione, che è l’ultimo suo percorso dalla terra all’infinito divino. In questo itinerario egli propone parabole folgoranti, come quelle del Buon Samaritano (10,25-37) o del padre prodigo di amore nei confronti del figlio prodigo nella ribellione (15,11-32); converte e accoglie peccatori come il pubblicano Zaccheo (19,1-10); è ospitato a tavola da amici come Marta e Maria (10,38-42) ma è anche rifiutato da un villaggio di Samaritani (9,51-56).
Secondo tutti i Sinottici il discepolo deve seguire il Maestro lungo le vie sassose della storia, come è attestato da Matteo nel cosiddetto “Discorso missionario” (Mt 10), reiterato in sintesi da Luca (10,1-12). Ecco alcune battute lucane di grande attualità anche nei nostri nuovi contesti socio-culturali: «Andate! Ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi. Non portate borsa né sacca né calzari … Nella casa in cui entrate dite: Pace a questa casa! … Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano e dite loro: Il Regno di Dio si è avvicinato a voi. Quando entrerete in una città, e non vi accoglieranno, andate nelle sue piazze e dite: … Sappiate che il Regno di Dio è vicino».
Anche il testamento finale riservato ai discepoli da parte del Risorto è netto: «Andate e fate discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). Marco aggiunge anche la missione di liberare dal male satanico e di curare i malati (16,15-18). La Chiesa è, quindi, in uscita dal tempio ove pure è raccolta per celebrare l’eucaristia come nel Cenacolo. È significativo che s. Pietro la definisca paroikía (1Pt 1,17; 2,11), donde il nostro termine, “parrocchia”, che letteralmente significa “fuori casa”, una Chiesa in uscita, come ama ripetere spesso Papa Francesco.
Cristo orante
Come abbiamo fatto in apertura, così in conclusione, proponiamo una nuova icona: il Cristo orante. È soprattutto Luca a “dipingere” questo ritratto. Nelle svolte decisive della sua vita Gesù si ritira in preghiera e in dialogo con il Padre: lo fa dopo il battesimo al Giordano (3,21), nel mezzo del primo entusiasmo della folla (5,16), prima della scelta dei dodici apostoli (6,12), prima della professione di fede di Pietro (9,18), durante il solenne svelamento della Trasfigurazione (9,28-29), prima di insegnare ai discepoli la preghiera distintiva del cristiano, il «Padre», Abba’ (11,1).
Gesù esorta a «pregare sempre, senza stancarsi» (18,1). Alle soglie della morte si ha la scena più esemplare, quella della preghiera nel Getsemani (22,39-46), scena che Luca descrive in modo più accurato rispetto agli altri evangelisti, scandendola con ben cinque menzioni della preghiera e incorniciandola con la duplice frase d'apertura e chiusura: «Pregate per non entrare in tentazione!».
E le sue ultime parole terrene, nell’agonia della crocifissione, sono un’invocazione orante basata sui Salmi, il libro della preghiera biblica. Da un lato, c’è tutta la sua fraternità con l’umanità sofferente che sente incombere su di sé il silenzio di Dio: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Sal 22,1). D’altro lato, però, c’è l’abbandono fiducioso al Padre anche nell’ora più tenebrosa: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; Sal 31, 5).
- Scheda Biografica
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Nato nel 1942 a Merate (Lecco), esperto biblista ed ebraista, è stato Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Arcivescovo dal 2007, creato cardinale da Benedetto XVI nel 2010, è Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. È il Fondatore del “Cortile dei Gentili”, Fondazione che – in stretta connessione con il Dicastero per la Cultura e l’Educazione – si occupa di promuovere il dialogo tra credenti e non credenti.
Born in 1942 at Merate (Lecco), he is an expert on the Bible and biblical languages and was previously the Prefect of the Ambrosian Library of Milan. He has been an Archbishop since 2007 and was created Cardinal by Benedict XVI in 2010. He is President Emeritus of the Pontifical Council for Culture and of the Pontifical Commission for Sacred Archaeology. He is the Founder of the "Courtyard of the Gentiles," a Foundation that - in connection with the Dicastery for Culture and Education - works to promote dialogue between believers and non-believers.