Carissimi,
Desidero salutare con viva cordialità il Cardinale Crescenzio Sepe - che ringrazio per l’invito - l’Arcivescovo Mons. Tommaso Caputo, i Confratelli Vescovi, i Sacerdoti, e voi tutti, cari Diaconi, insieme alle vostre spose.
Con questa Giornata Regionale dedicata al Diaconato Permanente si crea una preziosa occasione per fermarci e riflettere sulla specificità e sull’importanza di questa vocazione nella Chiesa.
Al riguardo, ho scelto tre parole – identità, formazione e missione – attraverso le quali vorrei illustrare il significato del Diaconato Permanente, che abbiamo bisogno di comprendere sempre meglio e che va inteso, anzitutto, come una vera e specifica vocazione, che deriva dal Battesimo, ma viene configurata nella sacramentalità come una stabile condizione di vita.
1. Identità
Quanto al tema dell’identità del diacono permanente, da tempo si ha come la sensazione di trovarsi in un ambito in via di definizione; potremmo dire che la questione di “chi sia” veramente il diacono, anche a motivo del recente ripristino avvenuto con il Concilio Vaticano II, costituisce una sorta di “cantiere aperto”, cioè un campo in evoluzione.
Approfondire il tema della specifica identità del diaconato è quanto mai urgente, soprattutto per evitare il rischio che essi siano considerati – come ha affermato recentemente Papa Francesco – “come mezzi preti e mezzi laici”. Questo è un pericolo. Alla fine non stanno né di qua né di là”. Il Santo Padre, proprio rispondendo alla domanda di un diacono permanente nel corso della sua visita a Milano, aggiungeva: “Guardarli così ci fa male e fa male a loro. Questo modo di considerarli toglie forza al carisma proprio del diaconato. Su questo voglio tornare: il carisma proprio del diaconato. E questo carisma è nella vita della Chiesa. E nemmeno va bene l’immagine del diacono come una specie di intermediario tra i fedeli e i pastori. Né a metà strada fra i preti e i laici, né a metà strada fra i pastori e i fedeli. E ci sono due tentazioni. C’è il pericolo del clericalismo: il diacono che è troppo clericale… Io alcune volte vedo qualcuno quando assiste alla liturgia: sembra quasi di voler prendere il posto del prete. Il clericalismo, guardatevi dal clericalismo. E l’altra tentazione, il funzionalismo: è un aiuto che ha il prete per questo o per quello…” (Papa Francesco, Visita Apostolica a Milano, Incontro con i sacerdoti e i Consacrati, 25 marzo 2017).
D’altra parte, questi rischi, che possono offuscare la vera natura e l’autentica identità del diaconato permanente, erano stati già messi in luce da un Documento della Commissione Teologica Internazionale del 2002, che avverte: «I diaconi rischiano di apparire come "preti incompleti" o "laici più avanzati"».
Con un’immagine particolarmente efficace, lo stesso Documento si riferisce al diaconato permanente come a un “ministero della soglia”, cioè un servizio offerto al Vangelo e al Regno di Dio in quelle situazioni e circostanze ecclesiali ed esistenziali nelle quali egli può essere presente in modo più continuato e più efficace di un prete, che ha un compito pastorale più ampio e necessariamente più inclusivo; il Documento afferma: “Si cercherà dunque, qua e là, di compiere uno sforzo particolare affinché il diaconato sia un «ministero della soglia», che tende a preoccuparsi delle "chiese delle frontiere": lavoro negli ambienti dove il prete non è presente e anche tra le famiglie monoparentali, tra le coppie, i carcerati, i giovani, i tossicomani, i malati di aids, gli anziani, i gruppi in difficoltà... Si orienteranno i compiti diaconali verso attività di ordine sociale, caritativo o amministrativo” (Commissione Teologica Internazionale, Il Diaconato: evoluzione e prospettive, Cap. VI).
Tale orientamento ci fa capire che l’identità del diacono si gioca nella relazione tra annuncio della Parola e servizio nella carità, laddove ovviamente nel primo rientra anche il servizio alla mensa del Signore.
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