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Card. Schönborn: “Rimettersi alla scuola del Maestro”

Card Schonborn
S.Em. il Card. Christoph Schönborn

Intervista al Cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, concessa alle Edizioni Studio Domenicano e ripresa ieri, 11 dicembre, da Il Foglio. A partire dal suo ultimo libro, appena pubblicato, dal titolo “Parlare col Maestro”, il Porporato sottolinea l’importanza del cammino di conversione, per “mettersi sempre e nuovamente alla scuola del Maestro e cambiare mentalità”; inoltre, Sua Eminenza affronta il tema della libertà interiore dei discepoli e di una Chiesa povera che diventi testimonianza credibile del Vangelo nel mondo di oggi.

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Parlare col Maestro

intervista a Christoph Schönborn (a cura di Edizioni Studio Domenicano)

Tratta da “Il Foglio” del 11 dicembre 2014

Il titolo di questo libro è già un programma: l’uomo ha bisogno di una scuola “che non finisce mai” per vivere; l’uomo è essenzialmente un “allievo”. Qual è, secondo Lei, la cosa più difficile da imparare in questa scuola e quale la più importante?

“La cosa più difficile da imparare è la conversione del cuore. Con questo invito: “convertitevi!”, comincia la predicazione di Gesù, e questo invito Gesù lo ripete ogni volta che annuncia il Vangelo. Penso, dunque, che il nucleo di questa scuola sia la conversione. Ma che cosa è la conversione, la metanoia, come dice il testo greco? Letteralmente, in greco, metanoia significa cambiamento di pensiero, di mente, di mentalità. E perché abbiamo bisogno di cambiare la nostra mentalità? Una volta Gesù lo dice a Pietro quando questi vuole impedirgli di andare a Gerusalemme, verso la passione. Gesù gli risponde: ‘Tu pensi come gli uomini e non come Dio’. Lo scopo dunque della scuola di Gesù è trovare il pensiero di Dio, la volontà di Dio, i sentimenti di Dio, come dice Paolo: ‘Abbiate in voi gli stessi sentimenti che erano in Cristo’. La conversione del cuore è la cosa più difficile ed è, al tempo stesso, anche la cosa più importante da imparare. Il metodo che poi Gesù usa è la pazienza, la sua infinita pazienza, e l’esperienza. Gesù ci fa camminare attraverso esperienze. I discepoli di Gesù fanno con lui delle esperienze, e dopo ogni esperienza egli dice: ecco, avete visto, avete capito, avete sentito, avete sperimentato”.

Lei scrive nel suo libro che spesso gli allievi “più bravi” ignorano di esserlo, mentre alcuni pensano di non avere più bisogno di questa scuola. Come si spiega ciò?

“Per essere allievi di Cristo dobbiamo essere consapevoli di avere bisogno di essere suoi allievi. La difficoltà che Gesù ha con i farisei – con alcuni, certo non con tutti – è che questi già si sentono sul buon cammino. E in un certo senso lo sono, perché sono bravi, sono pii, fanno tanti sacrifici per la loro religione. Ma a loro manca quell’esperienza che hanno dovuto fare i discepoli di Gesù, della propria debolezza, della propria miseria. Chi non ha ancora fatto quest’esperienza, crede di essere già al termine, di aver già superato la maturità, il baccalaureato, di aver finito la scuola. No, Gesù ci mostra, e lo fa durante tutta la sua vita, che abbiamo sempre bisogno di riconoscere la nostra povertà: ‘Beati i poveri, perché di essi è il regno di Dio’. Questo è dunque il nucleo: l’esperienza della propria debolezza, della propria miseria. Non per fermarci – Dio non vuole abbassare l’uomo, vuole salvarlo –, ma l’esperienza che abbiamo bisogno di salvezza è essenziale. E Gesù è il cammino della salvezza, il cammino in cui sperimentiamo che senza di lui non ce la facciamo”.

A proposito di povertà, Papa Francesco in uno dei suoi primi discorsi ha detto, sospirando: “Come desidero una chiesa povera!”. Come deve essere, secondo Lei, “povera” la chiesa?

“Penso che la sfida della povertà per la chiesa stia nel riconoscere che, pur essendo ricchissima di doni di Dio, la chiesa è una povera, una mendicante: bella come nessun’altra, perché è la sposa di Cristo, ma è bella della Sua luce, del Suo amore. La chiesa fiorisce, come fiorisce un essere umano quando è amato. E’ l’essere amati che rende le persone belle e radianti. Ora la povertà è innanzitutto l’esperienza della dipendenza, e la dipendenza più grande è quella dell’amore, perché l’amore non si può comprare, non si può acquistare, l’amore si può solo ricevere come dono. Ma in questa povertà c’è anche un’altra cosa che è molto importante per Papa Francesco: noi abbiamo la gioia di essere chiesa. Tutta la ricchezza di Cristo è nostra, come ha detto Paolo: ‘Tutto è vostro, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio’. Noi abbiamo tutta questa ricchezza, ma la portiamo in ‘vasi di creta’. Con questa consapevolezza, il nostro atteggiamento nei confronti dei non credenti, o di coloro che non condividono la nostra fede, si trasforma in un atteggiamento di umiltà, di vicinanza, di amore, di benevolenza. Penso che quando il Papa ci dice di andare nelle periferie, ci inviti a trattare la nostra ricchezza non come un’ esclusività, ma come una chiamata ad andare verso gli altri e a ricevere da loro. Così come fa Gesù con la samaritana: è a questa donna di facili costumi, a questa misera donna che Gesù si rivolge cominciando a chiederle: ‘Dammi da bere!’ Io penso che questa sia la povertà della quale parla Papa Francesco. Una chiesa povera è una chiesa, in un certo senso, mendicante. Quando Gesù ci invia o dice ai suoi discepoli, ‘andate senza borsa’, ci mostra questa grande dipendenza: che abbiamo cioè bisogno degli altri. Annunciare il regno di Dio non è l’attitudine dei beati ‘possidenti’, ma di coloro che sanno ricevere. Quando Gesù dice alla donna pagana che ha tanto insistito per la guarigione della figlia, ‘donna, grande è la tua fede’, ci mostra quest’atteggiamento di ammirazione di fronte alla fede di tanti pagani – e tanti nostri contemporanei sono, in un certo senso, pagani. Gesù ci insegna a non giudicarli, ma a vedere anche tutto il bene che c’è in loro e che fra di loro si fa. E’ questa una chiesa povera, una chiesa che non predica dall’alto del cavallo, ma che è discesa e cammina con gli altri”.

Ora che uno dei suoi compiti è quello della vigilanza sulle finanze vaticane, cosa si prefigge e cosa Le sembra più importante da realizzare in questo ambito?

“Il Papa ci ha detto una cosa – penso di non tradire un segreto: ‘Io non amo i soldi, ma ne ho bisogno, per i poveri e per la missione’. E con questa semplicità ci ha detto tutto: non i soldi per i soldi sono il fine, ma i soldi per i poveri, per la missione. E qui ci vuole un po’ di giustizia nei confronti del Vaticano: pensiamo che la Congregazione per la propaganda della fede, per l’evangelizzazione dei popoli, la ‘Propaganda fidei’, come un tempo si chiamava, sostiene con i soldi che ha da fondi immobiliari, da donazioni ricevute nel corso dei secoli – un patrimonio importante –, ecco, con questo patrimonio, essa sostiene più di mille diocesi nelle terre più povere del mondo, dove mai la chiesa locale potrebbe mantenere le proprie strutture e attività senza l’aiuto del Vaticano, del patrimonio della Santa Sede. Se ci sono stati degli scandali – e ce ne sono stati –, come abusi di fiducia, cattivo uso dei fondi o uso di fondi di origine equivoca ecc., tutto ciò non è che una minima parte: con una politica molto consistente, già sotto il pontificato di Papa Benedetto, ed ora, con Papa Francesco, possiamo dire che le pulizie sono state in gran parte già fatte. Adesso ci troviamo in un periodo di ricostruzione, sia della fiducia che dell’affidabilità e dell’efficienza delle finanze del Vaticano. Una situazione di poco o insufficiente controllo portava, infatti, a grandi perdite, a causa dell’inefficienza. Penso che Papa Francesco, con molta decisione e chiarezza, voglia mettere in buon ordine le finanze del Vaticano: lui che dice di non amare i soldi, vuole averli a disposizione per i poveri e per la missione”.

l 2014 è un anno in cui la chiesa ci dona tre papi santi: Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Non è sorprendente per Lei questa catena di santità che ha guidato la chiesa negli ultimi decenni? E quale insegnamento di questi Santi Padri Le sembra non debba andare perduto?

“La risposta per me è abbastanza semplice: tutti questi grandi papi del XX secolo e del nostro secolo, sono segni di una provvidenza stupefacente, della provvidenza di Dio che ha mandato, in ogni momento, il Papa di cui la chiesa aveva bisogno, di cui il mondo aveva bisogno. Pensiamo a Pio XII, tanto denigrato, tanto vilipeso: che grande Papa è stato in quel periodo così difficile della guerra e del dopoguerra! Ma ci voleva un passo avanti, ed è venuto Papa Giovanni XXIII, con la sua semplicità, con la sua santità e con il suo coraggio. Ha fatto il passo verso il Vaticano II, l’apertura verso le altre confessioni, l’ecumenismo, la dottrina sociale: un Papa che in cinque anni ha cambiato la faccia della chiesa. E poi Paolo VI, quel grande umile, attento, uomo di grandissima intelligenza ma anche di finezza, di attenzione alle sfide del tempo: è lui che ha condotto il Vaticano II, senza di lui il Concilio non sarebbe stato ciò che è stato. E poi, dopo Paolo VI, abbiamo avuto quella fiamma di pochi giorni di Giovanni Paolo I, probabilmente fra non molto beatificato: il Papa del sorriso, che è stato come un momento di grazia e di promessa. E poi il gigante dell’oriente, della Polonia, il santo Giovanni Paolo II che senza dubbio è una delle figure più grandi del Papato. E poi i due papi viventi, Benedetto XVI e Francesco”.

Benedetto XVI è stato ed è suo amico e maestro – se possiamo dirlo, è stato lui a ricevere il primo esemplare di questo suo libro “La scuola di vita di Gesù” prima di partire per Castel Gandolfo: qual è l’insegnamento fondamentale che ha avuto da questo suo maestro?

“L’umiltà, la semplicità, la sua grandezza di cuore e di spirito. Io lo dico sempre: nella mia

biblioteca le opere di Ratzinger stanno dopo quelle di Agostino. Io lo considero uno dei grandi maestri della storia del pensiero cristiano”.

E poi Papa Francesco…

“Ed infine Papa Francesco: ognuno è venuto al momento giusto. Penso che proprio questa sia l’evidenza che la divina provvidenza conduce la chiesa”.

Nel suo libro Lei spiega questo concetto di elezione: Dio sceglie non perché non sia democratico e preferisca qualcuno invece di un altro, ma perché ha un suo progetto e un progetto individuale con ciascuno di noi.

“Sì, e questo lo abbiamo sperimentato negli ultimi due Conclavi: dopo Giovanni Paolo II abbiamo sperimentato l’evidenza che Benedetto era destinato a diventarne il successore - l’evidenza è stata tale che il Conclave è durato meno di ventiquattro ore. E lo stesso adesso, dopo le dimissioni così sorprendenti e impressionanti di Papa Benedetto: lo Spirito Santo ci ha condotto con forza verso Francesco”.

Nel suo libro lei parla di maestri che devono diventare testimoni affinché la gente possa seguirli. Qual è la novità della testimonianza di Papa Francesco secondo Lei?

“E’ stato Paolo VI a dire che ‘il nostro tempo preferisce i testimoni ai dottori e se ascolta i dottori, li ascolta perché sono testimoni’. Penso che questo lo abbiamo sperimentato con Papa Ratzinger, con Papa Benedetto, che è un testimone della semplicità e dell’umiltà della fede in un cuore e in una testa di gran dottore. Papa Francesco, come primo gesuita che nella storia è diventato Papa, incarna per me il carisma di S. Ignazio in un modo molto puro, molto limpido. Che cos’è questo carisma? E’ la docilità allo Spirito Santo – al momento. È vivere in questa costante disponibilità a dove, al momento, adesso, manda lo Spirito Santo. Per me la sua spontaneità non è la spontaneità di un populista che vuole l’applauso della folla, no, bensì questa disponibilità interiore ad agire secondo ciò che vede, come Gesù, che dice: ‘Io faccio solo quello che vedo dal Padre’. In un certo senso lo

vedo così: egli fa quello che, al momento, vede e percepisce come azione dello Spirito Santo. Allora tale spontaneità è una grande libertà. Certo egli ha delle opzioni molto precise: il fatto che sia rimasto nella casa di accoglienza, nella domus Sanctae Marthae, è una scelta ben precisa, ben pensata. Non si tratta di un’idea alla leggera, populista. Egli ha voluto cambiare l’ambiente intorno al Papa. Dal primo momento del suo pontificato, Papa Francesco ha voluto liberare il Papa dall’involucro del cerimoniale, perché il cerimoniale fa del Papa, in un certo senso, un prigioniero. Papa Francesco ha voluto ridare al ruolo del Papa quello dell’apostolo, in mezzo alla gente, con quella libertà che è tanto cara alla vita cristiana: Cristo ci ha resi liberi. Penso che Francesco abbia voluto liberare il ruolo del Papa da un cerimoniale che gli impediva di essere pastore”. L’altro nuovo elemento è la sua capacità di dire le cose in un modo talmente semplice e figurato, simile a quello del Vangelo. C’è il sapore del Vangelo nelle metafore, nelle immagini che egli usa: c’è il gusto della predica di Gesù, semplice, diretta, toccante, intrisa di vita, comprensibile. Papa Francesco ha poi, fra i tanti altri doni, quello di saper prendere decisioni: ascolta molto, a lungo, si fa consigliare, e seriamente, per la riforma della curia, della banca. Ascolta, fa lavorare esperti, ascolta i risultati, ma poi decide con chiarezza, anche con fermezza, con coraggio”.

Il messaggio forte della chiesa in questi anni del nuovo millennio è quello della misericordia di Dio. Lei stesso ha dedicato un libro, “Abbiamo ottenuto misericordia”, a questo tema, è promotore dei Congressi internazionali della Divina Misericordia: come non fraintendere questo messaggio della misericordia e come coniugarlo con la giustizia di Dio? Anche Papa Francesco parla continuamente di misericordia, ma verso mafiosi o corrotti usa toni molto duri.

“La misericordia senza giustizia è una misericordia che io uso chiamare ‘da budino’, inconsistente: perché la misericordia con i poveri è esigente. Non si può lasciar regnare l’ingiustizia: lottare per una maggiore giustizia è una forma molto concreta di misericordia, come pure lottare per la vita e la dignità dei poveri e degli oppressi. La giustizia e la verità sono i due elementi fondamentali della misericordia: non possiamo essere misericordiosi senza la verità, e la verità può essere costosa, può essere difficile da sopportare o da accettare, ma è la condizione affinché possa attecchire la misericordia. Solo sulla base della verità la misericordia può aver presa sulla vita, e la stessa cosa vale per la giustizia. Perciò è molto coerente che il Papa voglia fare luce, cercare la verità anche negli scandali della chiesa, ed è coerente che lotti per la giustizia e contro la mafia, che è un peccato strutturale, un grave peccato d’ingiustizia. La misericordia richiede dunque un atteggiamento forte e ‘costoso’. A Gesù la misericordia nei nostri confronti è costata la vita”.

Nel suo libro lei cita la frase di Erik Peterson: “Finché sarà predicato il Vangelo in questo mondo – fino dunque alla fine dei tempi –, la chiesa avrà sempre i suoi martiri”. Negli ultimi tempi la chiesa e i cristiani sono sempre più oggetto di persecuzione in diversi paesi del mondo: come imparare, alla “scuola di vita di Gesù”, a conciliare la non violenza, l’appello alla pace che continuamente anche Papa Francesco fa, con la necessità di difendere tante vite umane?

“Questa è una tensione grande e importante all’interno della vita cristiana, quella di rinunciare alla violenza senza rinunciare alla giustizia. Che Papa Francesco non abbia escluso l’uso delle armi per proteggere tutto un paese, tutto un popolo – e prima di tutto i poveri senza difesa –, anche questo fa parte di una vera misericordia. Quando gli alleati presero le armi contro il terzo Reich di Hitler, non lo fecero per motivi di conquista, ma semplicemente per salvare vite umane, per fermare il male che faceva questo dittatore. Anche nel caso dei fondamentalisti radicali, violenti, che non conoscono limiti alla loro crudeltà, anche qui, la necessaria difesa dei poveri, della gente, della popolazione civile contro tali eccessi, non è incompatibile con la non violenza del Vangelo”.

Lei sarà padre sinodale nel prossimo Sinodo sulla famiglia: cosa le sta più a cuore e cosa si augura dai lavori di questo Sinodo?

“Due cose: la prima è guardare con amore, attenzione, comprensione e compassione la vita della gente, senza avere un giudizio su tutto, ma prima vedere, prima accogliere. La seconda è questa: c’è una meta, un ideale del quale Gesù ci parla ed è il vero matrimonio cristiano. Ma il Papa ci ha detto: voi dovete accompagnare la gente verso questa meta. Penso che ciò che lui voglia dal Sinodo sia molto semplice: guardare con benevolenza, con attenzione il tanto bene che si fa anche in un mondo secolare, guardare quanta sofferenza ci sia ed accompagnare, essere vicini portando nel cuore quella visione della quale ci parla Gesù, quel disegno iniziale di Dio sull’uomo e sulla donna. La bellezza di questo ideale è l’unica cosa che possa attrarre ad entrare in questo cammino”.