Dagli scritti di San Giovanni d'Ávila, maestro di evangelizzatori - Scritti scelti
Ed. San Paolo
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Primo memoriale per il Concilio di Trento (1551)
Riforma dello stato ecclesiastico
[Della riforma dello stato ecclesiastico]
1. La via usata da molti per riformare i costumi di solito consiste nel promulgare buone leggi e nell’obbligare al loro rispetto sotto pena di pesanti castighi. Fatto ciò, la soluzione sembra raggiunta. Tuttavia, se non c’è un fondamento di virtù nei sudditi per l’adempimento di queste buone leggi, esse diventano per loro un onere, che cercheranno allora di evitare ricorrendo a dei sotterfugi per non rispettarle e per sfuggire ad esse nascostamente o addirittura contravverranno ad esse in modo aperto. E se castigare diventa azione sgradita per colui che castiga e per colui che viene punito, la cosa finisce comunque male, e di solito va a finire come in questo caso: con molta malvagità e con molte e ottime leggi.
2. Questo modo di provvedere è assimilabile a quello dell’antica Legge, che comandava ciò che si doveva fare e ne castigava il trasgressore. Tuttavia non aiutava i sudditi ad amare ciò che veniva loro comandato, in modo che non fosse necessario infliggere il castigo.
Certamente avevano ragione gli antichi persiani nel ritenere la loro repubblica meglio amministrata rispetto a quelle di altri popoli, perché, mentre essi inculcavano buone abitudini, istruendo nella virtù i loro cittadini, gli altri vivevano governati da leggi molto buone, ma senza che vi fosse chi si curasse di dare una educazione virtuosa. I primi prevenivano i crimini abituando gli uomini e armandoli con la virtù, in modo tale che essi non cadessero in errore. Gli altri, invece, non si occupavano di ciò, e si accontentavano di fare eseguire la legge colpendo coloro che l’avevano infranta. Gli uni cercavano di mantenere la salute per non dover somministrare la medicina, gli altri non curavano finché non vedevano la persona cadere, il che è cosa penosa o costosa, e molte volte non si raggiunge la salute ricercata con tanto affanno.
E chiaro che se, per esempio, un maestro che sta per allontanarsi dai suoi alunni, dirà loro: «State attenti, vi ordino di non litigare e di non giocare in mia assenza; rimanete composti e leggete; altrimenti, quando torno verrete puniti», egli non soddisferà il compito di un buon maestro, né otterrà dagli alunni ciò che desidera, perché si è limitato a comandare. Dovrà lui essere presente, lavorare e sudare con loro, e allora, anche senza molto sforzo, essi rispetteranno ciò che viene loro comandato.
3. Mi sembra che lo stato in cui ci troviamo attualmente sia simile a quello dell’antica Legge, e alla repubblica dei trascurati, e alla negligenza di maestri che comandano e non aiutano a rispettare le regole. Perché, infatti, quali migliori regole possono esserci, se non quelle sulla santità, sulle lettere e sull’ordinamento di tutta la Chiesa? Quante pene sono state create per i trasgressori di queste buone leggi! Eppure, non c’è chi non sappia quanta malvagità, quanta ignoranza e quanto disordine vi siano fra gli ecclesiastici.
Dice questo santo concilio: che nelle chiese vi sia lettura e spiegazione della santa Scrittura. E certamente, è un buon comandamento. Eppure, dato che ci sarà sicuramente chi la leggerà, visto che verrà pagato, io mi chiedo: chi la ascolterà? E già stato fatto il tentativo, in questi tempi, in alcune cattedrali, e la conclusione a cui si è arrivati è che, di tanta moltitudine di chierici che vi sono in esse, nessuno ascolterà, o forse uno o due, e non fra i principali; e, se vengono anche alcuni laici, si stancano; e così, si abbandona la cosa, o si realizza senza che essa porti frutto, per mancanza di pubblico. E se a ciò si replica che i superiori dovranno ordinare ai chierici di ascoltare, sotto minaccia di gravi pene, rispondo che abbiamo visto anche questo: che cercano sempre impedimenti mascherati che sembrano fatti apposta per sfuggire alla lezione, finché il superiore si stanca e il lettore pure, e non se ne fa più nulla. Ma se codesti andranno a lezione a forza, che profitto ne potranno trarre? Quei momenti li passano come un tormento, pensando e parlando di cose ben diverse dalla lezione. E poi non ne resta libro, né memoria, né studio, perché non possono assaporare ciò che non hanno usato né fatto, né serve a condurli verso quell’obiettivo, che è molto diverso da quello che doveva essere, nel quale hanno posto il loro cuore; e per questo, sono molto lontani dall’altra cosa. Questo è ciò che succederà dappertutto, o quasi, se ai chierici che ci sono ora verrà imposto tale tipo di lezioni. E se in qualche chiesa dovesse accadere diversamente, cosa molto inusuale, accade in una piccolissima parte di tutta la Chiesa, il sacro concilio non deve accontentarsi di una cosa così piccola, dato che gli viene affidato il compito di soccorrere la Chiesa cattolica.
Dice anche, e molto bene, questo santo concilio, che i preti proclamino ai loro parrocchiani il Vangelo. Ora io chiedo: «Quale è la prerogativa dei sacerdoti che permette loro di capirlo e che dà loro la possibilità di proclamarlo e vita (esemplare) per essere ascoltati?». La maggior parte di essi non lo capisce. E fra i pochi che lo intendono, ve ne sono alcuni che hanno una vita tale, e conosciuta come tale, che non oseranno fare ciò; o, se lo fanno, sarà maggiore la burla fatta ad essi o a ciò che predicano, del danno che ne deriva dal non predicare. E saranno molti i parrocchiani che, solo per non sentire proclamato il Vangelo da persone di cui si ha una così cattiva opinione, smetteranno di andare in chiesa a messa. E su questo c’è poco da dubitare, ché questo stesso comandamento è stato dato ai sacerdoti in molte diocesi della Spagna, e vediamo che o non si mette in pratica, o lo si fa, ma così male, che è come se non si facesse.