Lettura del Giorno

Cristo Ideale del Sacerdote [Cap. 1]

Patriarca Venezia_Luciani
Albino Luciani

L'allora Patriarca di Venezia, Albino Luciani, in alcune riflessioni su "Cristo Ideale del Sacerdote.

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Servitore in obbedienza

10.          In linea col « servizio » è l’obbedienza che — come praticata da Cristo — stupisce dav­vero. Ricordiamo qualche tratto. « Entrando nel mondo, il Cristo dice: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (142), prime parole di Cristo, registrate da S. Paolo. Ultime parole di Cristo registrate da S. Giovanni: « Tutto è com­piuto » (143). Tra queste due espressioni di ob­bedienza c’è tutta una vita di obbedienza: « Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi mandò a compiere l’opera sua » (144). « Io faccio sempre quello che piace a lui (al Padre)» (145). «Non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (146). «Padre, se tu vuoi, al­lontana da me questo calice; però non la mia vo­lontà, ma la tua sia fatta! » (147). « Padre mio... non come voglio io, ma come vuoi tu» (148). Prendendo atto di tutto questo, S. Paolo esorta: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù... che si umiliò più ancora obbe­dendo fino alla morte e alla morte su una croce! »

(149)      . Viene aggiunto che si trattò di obbedienza imparata a grave prezzo: « pur essendo Figlio, im­parò, da ciò che soffrì, l’obbedienza» (150). Si dirà: — Ma è obbedienza a Dio! Ebbene, Cristo obbedì anche agli uomini. Dodicenne, ritrovato da Maria e Giuseppe nel Tempio, afferma la pro­pria autonomia divina, dicendo: « perché mi cer­cavate? ». Subito dopo, però, si riimmerge nella piena sottomissione: « poi scese con essi, venne a Nazareth e stava loro sottomesso » (151). Quan­do si tratta di pagare il didramma, a Pietro, che già s’era impegnato con quelli che lo riscuotevano, Gesù fa notare che i figli non pagano tasse al padre, ma soggiunge: « Tuttavia, per non scan­dalizzare costoro (per non apparire dei ”conte­statori” si direbbe oggi) va al mare, getta l’amo, e il primo pesce che vien su, tiralo fuori e, aperta la bocca, troverai uno statere: prendilo e dallo a loro per me e per te» (152). Una vera pesca miracolosa, e il miracolo è fatto per venire in­contro alla povertà (non avevano in tasca nemme­no uno statere, cioè cinquecento lire!), ma anche — e viene sottolineato — per non apparire di­sobbedienti!

Non ho intenzione alcuna, a questo punto, di inculcare ai miei sacerdoti il servilismo, riser­vando a me l’autoritarismo o il despotismo. Qual­cosa di diverso — invece — un’obbedienza «responsabile e volontaria» (153), che ammetta una « iniziativa dipendente », la figura cioè del « sacerdote-ingegnere », che, dentro i giusti limiti, sa pensare e riflettere sulle situazioni, sa inven­tare, giorno per giorno, la sua azione pastorale. Una obbedienza che si riconosca nelle seguenti parole del Concilio: « I sacerdoti riconoscano nel vescovo il loro padre e gli obbediscano con ri­spettoso amore. Il vescovo poi consideri i sacer­doti suoi cooperatori come figli e amici» (154). In altre parole: bisogna salvare il valore religioso dell’obbedienza, credere che l’obbedienza è uno strumento ascetico per mortificare l’amor proprio scaturente in noi dal peccato originale per offrirci a Dio, per configurarci a Cristo vittima obbe­diente. La tendenza oggi è, invece, di apprezzare l’obbedienza soltanto in quanto essa è utile al bene comune e di ridimensionarla al fine di tute­lare la dignità della persona umana. Si vuole una obbedienza « dialogata », « illuminata e illumi­nante », « manovrata », « regolata » dalla legge della competenza.

Dialogo? Lo invoca il Concilio, dicendo che l’obbedienza dei presbiteri dev’essere « pervasa dallo spirito di collaborazione » (155). Ben venga, dunque, il dialogo, se è elemento introduttorio, preparatorio all’ultima parola e decisione che spet­ta — ancora! — al Superiore. Si sia però cauti nel dire che il dialogo è « elemento costitutivo » dell’obbedienza. Non si creda che il dialogo abbia la virtù magica di scoprire tutta la verità, di tutto illuminare: succede, infatti, spesso che, dopo aver « dialogato » a lungo, ciascuno resta nelle sue opinioni.

Illuminazione? Già S. Benedetto nel capi­tolo 3 della regola prescriveva all’abate di illu­minarsi, chiedendo negli affari ordinari il parere dei seniori; nei negozi più importanti poi dove­vano essere sentiti tutti i monaci, « anche i più giovani, poiché spesso il Signore a giovani menti rivela maturi consigli ». Il Concilio per i vescovi prescrive: « Siano pronti ad ascoltare il parere (del Presbiterio), anzi, siano loro stessi a consul­tarlo e a esaminare assieme i problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi. E, perché ciò sia possibile nella pratica, ci sia... una commissione o Senato di sacerdoti... il quale con i suoi consigli possa aiutare effica­cemente il vescovo nel governo della diocesi » (156). Oltre che illuminarsi, converrà spesso che il Superiore illumini, spiegando sinceramente e umilmente ai sudditi i motivi dei suoi desideri e delle sue iniziative.

Scandalizzerà forse ch’io abbia accennato a un 'obbedienza manovrata. Ma è S. Bernardo (157) che osserva: c’è chi, dopo avere « manovrato » perché « quod (ipse) habet in voluntate hoc ei pater spiritualis iniungat », arriva allo scopo e dichiara: Ho obbedito! Macché obbedire! dice il Santo: « Ipse se seducit... non ipse praelato, sed magis ei praelatus oboedit! ». Succede anche oggi! « Il modo desiderato (da certi sacerdoti) per l’esercizio dell’autorità — dice Paolo VI — è quello che fa del Fratello Superiore il docile esecutore di ciò che i Fratelli Subordinati desi­derano e dispongono» (158). Nel caso, si tratta, evidentemente, di pseudo obbedienza, nella quale possono mancare sia i sudditi decisi a tutto e forti in dialettica, sia i superiori che non hanno il co­raggio di assumere le proprie responsabilità pa­storali, di dire SI o NO, che benedicono tutto quello che avviene.

Qualche stonatura rilevo anche in chi pre­tende che solo la competenza conferisca al Supe­riore l’autorità e al suddito il dovere di obbedire. Come, infatti, provare la « competenza » o la man­canza della medesima nel Superiore? Se aspettia­mo, per obbedire, il Superiore competente, senza difetti, di levatura michelangiolesca, siamo alla scuola di Bertoldo, che non trovò mai l’albero adatto a cui venire impiccato! Se ricusiamo di vedere — sia pure coi dovuti limiti — nel Supe­riore il rappresentante di Dio, troveremo sempre pretesti per fare i nostri comodi!

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(142) Ebrei 10, 5-7.

(143) Giov. 19, 30.

(144) Giov. 4, 34.

(145) Giov. 8, 29.

(146) Giov. 5, 0.

(147) Lc. 22, 42. 

(148) Mt. 26, 39.

(149) Filipp. 2, 5 e 8.

(150) Ebrei 5, 8.

(151) Lc. 2, 47-51.

(152) Mt. 17, 24-27.

(153) PO, 15, 1295.

(154) LG, 28, 355.

(155) PO, 7, 1265.

(156) PO, 7, 1264.

(157) De diversis, sermo  35.

(158) PAOLO VI, Allocuzione all'Episcopato Italiano 11-4-1970 in AAS 62 (1970), p. 281-282.