Lettura del Giorno

Il sacerdote diocesano alla luce del Vaticano II [Cap. 2]

Albino Luciani
Albino Luciani

L'allora Vescovo di Vittorio Veneto, Albino Luciani, in alcune riflessioni sul sacerdote diocesano alla luce del Vaticano II





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2.

La spiritualità del sacerdote diocesano

Il tema può essere inteso in due sensi.

Primo: I sacerdoti diocesani hanno vero obbligo di tendere alla santità?

Secondo: Supposto che tendano alla santità, che via devono segui­re? Quella dei religiosi, adattata ai sacerdoti, oppure una via propria, diversa e autonoma da quella dei religiosi?

I.

Al primo quesito il Concilio dà una risposta esplicita: i sacerdoti sono obbligati a farsi santi per due motivi. In grazia del Battesimo essi sono inseriti tra i fratelli di Gesù Cristo, cui è stato detto: « Siate perfetti »; già a questo titolo « possono tendere alla perfezione, anzi devono tendervi» (1). Si aggiunge la ordinazione sacerdotale, che dà loro una nuova consacrazione, li eleva a strumenti di Cristo; per essa « ad illam perfectionem aquirendam peculiari ratione tenentur » (2).

L’appello alla santità sacerdotale non è nuovo; è la campana an­tica, che risentiamo dopo il Tridentino, dopo il Codice, dopo i grandi documenti degli ultimi Papi. Nuovi sono gli echi, ch'essa sembra ride­stare nella valle del mondo. Vediamone qualcuno.

1.     Diceva S. Tommaso: uno ha obbligo perpetuo « cum aliqua solemnitate ad ea quae sunt perfectionis »? Appartiene allo « status perfectionis ». Così, il religioso, perché — facendo la professione perpe­tua — ha abbracciata la vita contemplativa pura o mista ( « contem­plari » o «contemplata tradere » ). Così, il vescovo, perché, pur non essendo legato da perpetui voti religiosi, è « in statu adeptae seu exercendae perfectionis » (3); consacrato per sempre alla cura d'anime, egli deve praticare la carità pastorale fino all’estremo delle sue forse, e possedere in sé la santità che deve comunicare agli altri. E i sacer­doti? In un certo senso, parzialmente, sono in statu perfectionis i sa­cerdoti « latini », in quanto, al suddiaconato, emisero « continentiae votum, quod est unum eorum, quae ad perfectionem pertinent »; simpliciter, però, ì sacerdoti non sono in statu perfectionis. Essi, infatti, non sono tenuti « vinculo perpetui voti » alla cura delle anime e stanno ai vescovi « sicut balivi seu praepositi ad regem » (4). Per compenso, S. Tommaso, portando vari argomenti, insegnava: « status episcoporum est perfectior quam status religiosorum » (5). Qualcuno reagì a queste tesi. « Coetus clericorum longe praeeminet coetui mona- cliorum » diceva una frase del Corpus Juris (6). Il Card. Manning ac­cettava da S. Tommaso che lo stato episcopale prevalesse sullo stato religioso, ma, procedendo oltre, argomentava: Cos’è la cura d'anime esercitata dai parroci se non una forma limitata di episcopato? Ed allora, dite anche ch'esso partecipa della superiorità dello stato epi­scopale di fronte ai religiosi (7). La maggior parte dei teologi e dei canonisti è rimasta tuttavìa fedele alle tesi tomistiche fino al Concilio.

Il Concilio non ha risolto la questione, ma pone, mi pare, alcuni elementi di soluzione.

Primo: Il Concilio non dice che i sacerdoti sono in uno stato di santità: proclama però vigorosamente il loro obbligo di tendere alla santità; segnala — come vedremo — mezzi di santità propri del clero e inscindibilmente legati al sacerdozio. Si potrebbe quindi dire: sono poste dai Concilio sia la perpetuitas che la aliqua solemnitas richieste da S. Tomaso per lo stato di perfezione.

Secondo; I religiosi sono detti appartenere allo « stato di vita ». allo « stato religioso », allo « stato costituito dalla professione dei con­sigli evangelici» (8), ma non più allo « stato di perfezione ». Si evita di dare l’impressione che la « perfezione » sia privilegio dì una casta, dalla quale i non religiosi sono esclusi: ci si orienta verso l’idea che tutti i battezzati, poiché obbligati alla santità, appartengono almeno allo « status adipiscendae perfectionis », se proprio si vuole conservare la terminologia tomistica. Si evita anche — lo chiedeva in Aula conci­liare il 30-10-1963 l’abate di Beuron Benno Reetz (un religioso!) — il « fariseismo » di professare l’umiltà e nel medesimo tempo di rivendi­care il monopolio della « perfezione », dimenticando il monito evange­lico: « la tua sinistra non sappia ciò che fa la tua destra »!

Terzo: Il Concilio accosta molto i sacerdoti diocesani ai religiosi- sacerdoti, mostrandoli tutti «cooperatori dell’Ordine episcopale» (9), rendendo ormai sorpassato il concetto che si possa diventare — anche se religiosi — sacerdoti solo per celebrare la Messa (10) o solo in vista della propria santificazione.

Quarto: Sacerdoti, religiosi e laici hanno in comune un titolo, che li impegna strettamente alla santità: il Battesimo. Titolo non piccolo: per esso si viene consacrati a Dio da Dio stesso. Nella professione reli­giosa la consacrazione a Dio viene fatta dalla libera volontà umana e qualcuno non esita a dire: il religioso è tenuto alla santità più in forza del Battesimo che della professione.

Quinto: Manca ormai — coll'invito rivolto ai vescovi di rinunciare non dopo i 75 anni — la perpetuità nella cura d’anime. Casca così il titolo su cui si appoggiava S. Tommaso per distinguere i vescovi dai sacerdoti e per rifiutare a quest’ultimi lo « status perfectionis ».

Sesto: Il Concilio mette, è vero, in risalto la « testimonianza esca­tologica » dei religiosi, i quali colla loro vita danno un’idea della vita di gloria — al di là delle preoccupazioni terrene — e richiamano gli uomini ai loro destini eterni, ma aggiunge: i religiosi non sono soli nell’assolvere questa funzione: sono sì, signum eschatologicum speciale, ma uno, uno dei tanti. A loro modo sono signum anche i sacerdoti (11), anche i semplici fedeli e, soprattutto, la Chiesa, il segno, il sacramento grande.

Settimo: Il Concilio rinverdisce la dottrina sui carismi o doni con­cessi dallo Spirito Santo ai fedeli in vista del bene della Chiesa. Ciò accorcia le distanze tra fedeli e religiosi. In questi ultimi la castità, la povertà, l’ubbidienza e soprattutto la carità ( che « anima e guida la stes­sa pratica dei consigli evangelici ») (12) vanno considerate come ca­rismi.

Da tutto questo, dopo opportuni studi, si andrà forse a sboccare domani nella conclusione seguente: la nozione giuridico-canonica degli « stati di perfezione » è superata, poiché è chiaro che tutti i battezzati devono tendere alla santità, ciascuno per la propria via. Ci saranno, invece, più vie. Ad esempio, la « via dei religiosi » per coloro che vo­gliono diventare santi, osservando, fuori del mondo e nella lettera, oltre che nello spirito, i consigli evangelici. La « via sacerdotale », co­mune a vescovi e a sacerdoti, in cui ci si santifica specialmente eserci­tando il ministero (perfectum pastoralis caritatis munus) per il bene del prossimo (13). La « via laicale » in cui ci si santifica osservando nello spirito i molteplici consigli evangelici, ma restando nei propri impegni sociali e sfruttandoli come mezzo di santità.

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Convenzionalmente: LG = Lumen Gentium - PO = Presbyterorum ordinis - PC = Perfectae caritatis - UR = Unitatis redintegratio - DH = Dignitatis humanae - GS = Gaudium et Spes - AG = Ad Gentes - SC = Sacrosanctum Concilium - CD = Christus Dominus. I numeri tra parentesi si riferiscono alla 3a edizione Dehoniana dei Documenti Conciliari.

(1) PO, 12 (1282); cfr. LG, 41 (392).

(2) PO, 12 (1282).

(3) S.TH.2,2ae p. 184, aa. 5-7; q. 185, a. 1 ad 2.

{4) S.TH.2,2ae q.184, a. 6.

(5) S.TH.2, 2ae, q. 184, a. 7 e q. 185, a. 1 ad 2.

(6) Corpus Iuris, pars decisa de c.4 de conversatione coniugali, X [III, XXXIX].

(7) 6. CAVIGIOLI, Manuale di Diritto Canonico, Torino, 1934, p. 364.

(8) LG, 13 (320); 43 (403); 44 (407).

(8) PO, 2 (1245); CD, 34 (667).

(10) PO, 2 (1247).

(11) LG, 25 (350) e 28 (357); PO, 4 (12505) 13 (1289) e 16 (1297).

(12) PC, 6 (724).

(13) LG, 41 (391) e S. TH. 2, 2ae, q. 184 a. 5 et 6.