Gesù lascia Nazareth, che come sappiamo è abitata, dopo l’Esodo, dalla famiglia di Davide, dunque la parte più ostinata, più nazionalista, più chiusa. Non va a Gerusalemme, al centro, ma in quella parte della Galilea che fu chiamata “Galilea delle Genti”, Terra di Zabulon e Neftali, “la vera periferia”, come direbbe oggi Papa Francesco.
Una zona mista – e come tale per i Giudei già impura - di ebrei e pagani con la quale Matteo vuol sottolineare il taglio decisamente universale della missione di Cristo e lo scenario messianico perfetto.
Il richiamo a Isaia, che leggiamo anche nella prima lettura, ci ricolloca nel contesto della dominazione assira dopo la divisione del Regno, quando a nord, nel territorio di Zabulon e Neftali – di per sé la parte più fertile e ricca della Galilea - si assiste a una ferocia inaudita da parte di Tiglat Pilazar III, personaggio già incontrato con Acaz che non voleva da Dio un segno – che punisce accecando chiunque provi a ribellarsi. Dunque il riferimento al popolo sfinito dall’oppressione che camminava nelle tenebre è reale, ed è il retroscena in cui Cristo comincia la sua azione. Matteo mette in evidenza questa realtà così oscura e opprimente e questa voglia di liberazione continuamente punita proprio perché questo è il peccato permanente: salvare se stessi da una situazione drammatica trovando uno più potente con cui allearsi. E si serve di una profezia di sette secoli prima, per dimostrare che non conta il tempo ma la verità spirituale.
Perciò ci aiuta anche il riferimento al giorno di Madian, quando davanti a un’oppressione altrettanto tremenda, quella madianita, gli Ebrei sognano un’alleanza potente per sconfiggere il nemico. Si fa sentire Dio e chiama Gedeone. Lui si difende ma poi davanti al segno che Dio gli manda accetta, Dio lo guida e lui segue: perciò vince con un pugno di uomini, in modo quasi ridicolo.
Ma il punto è qui, non con la forza, non con i forti, ma lasciarsi fare da Dio. È Dio che guiderà la strada della salvezza. E perciò la prima parola che Cristo pronuncia e proclama è “Convertitevi”.
Il significato, in ebraico o in greco è più o meno lo stesso, ci dice che la irezione è sbagliata. Si tratta di abbandonare una mentalità abituale, meta-noein. Non solo andare oltre, vedere oltre, ma attingere oltre il solo pensiero. Dunque si esige di abbandonare la mentalità di allearsi con i forti, di appoggiarsi e vincere e andare avanti da vincitori perché non salva bisogna cambiare direzione. E questo vale sia per i pagani che si appoggiavano sulla loro economia (cf Mc 5,1-20) sia per gli Ebrei che si appoggiavano sulla legge (cf Rm 3,9; Ef 2,1-5), a entrambi Cristo dice: convertitevi, non si può andare avanti, la direzione è sbagliata.
Il Regno dei cieli è venuto - trascritto da molti codici nel senso che è arrivato Cristo nella terra di Zabulon e di Neftali - è Dio che si è fatto vicino, è venuto dove c’è l’uomo, è qui. Un cambio di prospettiva totale, se ad Abramo viene detto “esci e vai”, ora dopo il convertitevi c’è la vocazione, la chiamata, c’è il “vieni e seguimi”. È la mentalità nuova, dove non sono io che prendo l’iniziativa, neanche quella religiosa; non sono io che proietto verso Dio le mie attese e le mie immaginazioni della salvezza di me stesso, ma mi attivo invece nell'accogliere il Salvatore. Si tratta di rispondere accogliendo e non meritare. Rispondo a Colui che mi chiama. La vocazione coincide con la redenzione. Una verità spirituale di estrema importanza nella vita guardando come alle volte le vocazioni finiscono in una vita da non redenti. Invece il Regno dei cieli si fa vicino, perché è Dio a unirsi a noi, perché “non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi” (cf Gv 15,16).
La vocazione è la novità della vita dove cambia il modo di capire la religione e la fede. Dove non sono io a dare le regole della salvezza ma accolgo la chiamata e seguo il Figlio.
P. Marko Ivan Rupnik