Questo brano del tempo pasquale sembra fotografare abbastanza realisticamente quella che potrebbe essere probabilmente la situazione ecclesiale di ogni tempo. Luca dice infatti il nome di uno dei discepoli, ma lascia in sospeso il secondo nome. Il secondo discepolo potrebbe allora rappresentare anche lui stesso e la sua storia personale, perché Luca non ha conosciuto il Cristo pre-pasquale, ma è stato raggiunto dal Cristo risorto, proprio come Paolo. Ma il secondo discepolo senza nome lascia spazio anche al nostro nome. Prima di tutto colpisce la loro tristezza, frutto di un’amara delusione. Sono delusi perché nel loro ragionamento arrivano fino alla morte del loro “presunto” Messia. È già accaduto che è venuto qualcuno suscitando grandi speranze messianiche, ma poi è morto. Allora se ne attendeva un altro. Questo fallimento nutre nei due discepoli la tristezza e li fa sospettare di aver sbagliato la persona in cui riporre le loro speranze. Ma c’è di più, perché la loro delusione arriva addirittura a inquinare il messaggio delle donne, che annunciava che il Cristo era risorto. E perché loro sarebbero delusi anche se Cristo è risorto? Il punto è proprio questo: la delusione per un Messia che non ha restaurato il regno di Davide. Tanto è vero che Luca, ancora all’inizio degli Atti, annota la domanda dei discepoli: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?” (At 1,6b). Con ciò si vede come l’attesa del Messia condizioni radicalmente l’immaginario, i desideri e la mentalità. Si vede che ancora pensavano ad un regno stabile e definitivo, invincibile secondo questo mondo. Questa ottica diventa ancora più esplicita per il fatto che stanno andando verso Emmaus, dove secondo 1Mac 3,38-60; 4,3; 9,50, Giuda Maccabeo stravinse una battaglia con i pagani, mentre ora ripensano e parlano di una sconfitta, di un fallimento. Tanto è vero che il loro parlare arriva al litigare (syzētein). Mentre i due sono totalmente immersi nel dramma, che hanno vissuto con un Messia che ha deluso le loro attese, non si rendono conto che con loro sta già camminando Cristo. “I loro occhi erano impediti a riconoscerlo”. Perché i loro occhi erano incapaci di vederlo? Perché erano sommersi dalla loro mentalità. Vedevano ciò che pensavano. La loro attesa del restauro dello splendore di un regno, della loro importanza, del loro successo nella storia dopo tutte le umiliazioni subite come popolo ha impedito loro di lasciarsi sorprendere dalla presenza del Signore. Non solo. Quando Cristo comincia a fare domande, lo chiamano “l’unico forestiero a Gerusalemme”, dicendo con questo una grande verità, dato che Lui come mandato dal Padre non fu riconosciuto a Gerusalemme, ma allo stesso tempo affermando una cosa ridicola, perché, se qualcuno conosce ciò che è accaduto, è proprio Lui, che è il protagonista di questi eventi.
Qui non è possibile non vedere fotografata la nostra realtà, dove tante volte si fanno dei progetti e poi non accade ciò che si attendeva. Allora grandi discussioni, i perché, la ricerca del colpevole, ecc., mentre non si ha il minimo senso per la presenza e per ciò che il Signore ci sta dicendo. Sembra quasi tragico poter dire che alle volte tra di noi, nella Chiesa, cioè nei nostri consigli, raduni, luoghi dove si progetta, dove si programma, dove si fanno le analisi e le proposte, ecc., è difficile scoprire la presenza del Signore.
Senza uno sguardo di fede, cioè di accoglienza del dono del Padre, senza esperienza di questo dono che è il Figlio, non si capisce la via dell’amore, cioè la via della pasqua che vale anche per la Chiesa. I discepoli non potevano accettare la croce. E questa rimane una tentazione permanente per la Chiesa, soprattutto se è troppo abituata a godere del prestigio e del rispetto del mondo.
P. Marko Ivan Rupnik