L’inizio della missione pubblica di Gesù era evidentemente sconvolgente. Per questo sentiva il bisogno di chiarire la sua posizione rispetto alla Legge e i Profeti. La prima cosa che Cristo chiarisce è che non è venuto ad abolire, né la Legge né i Profeti, ma a dare il compimento. La parola compimento nel contesto del capitolo 5 di Matteo dice molto di più che la semplice piena realizzazione. Intanto, chiarisce che fino a Lui non erano ancora compiuti, né la Legge né i Profeti. Ma allo stesso tempo la buona novella sta proprio nel fatto che è Lui, il Cristo, la realizzazione di ciò che disegna la Legge e della visione annunciata nei Profeti. D’ ora in poi, aderire al disegno di Dio sull’uomo significa aderire a Cristo, anzi secondo San Paolo, trovarsi in Cristo Gesù. Senza Cristo non possiamo parlare del compimento della visione di Dio sull’uomo. Anzi, pur salvando integralmente la via disegnata dalla Legge e la profezia della salvezza annunciata dai Profeti, Cristo indica che c’è qualcosa nella Legge che, anche quando la si osserva, non fa aderire al disegno di Dio. “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel Regno dei cieli” (Mt 5,20). Cristo cita due gruppi che si vantano di conoscere e di praticare, eppure stando alla sua parola, ciò non basta per entrare nel Regno. In effetti Lc 15 disegna il figlio maggiore come uno che non ha trasgredito nessun comandamento, eppure non entra nella casa del Padre. Mt 19 fa vedere un giovane che sostiene di aver osservato sempre tutti i comandamenti, eppure qualcosa ancora gli manca. Paolo, che evidentemente per esperienza conosce l’aspetto frustrante della Legge, in Gal 2,16 afferma decisamente che “dalle opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno”. Cosa possiamo concludere da queste considerazioni? Che la Legge fa leva sull’uomo stesso, sul suo operare, il suo fare, ma non riesce a cambiargli la qualità della vita, non cambia l’uomo individuale, isolato in sé stesso, l’uomo che si misura con la Legge per giustificarsi nel rapporto con Dio in un uomo cui viene donata la relazione, non solo con Dio ma, in generale, la relazione come modo di esistere.
La pratica della Legge in effetti rivela una mancanza della vita come relazione, come comunione. Si è fatto un solco molto profondo tra i primi tre comandamenti che riguardano Dio e gli altri sette che riguardano la relazione con gli altri. L’uomo religioso ha messo tutto l’accento sui primi tre, cioè sul compiere tutto ciò che riguarda il giustificarsi nel rapporto verso Dio. Basti ricordare alcuni episodi dove Cristo stesso è stato messo alla prova e ne è uscito con una domanda imbarazzante: “E’ lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?” (Mc 3,4). Per soddisfare la giustizia verso Dio, l’uomo era facile a dire che Dio comanda “di lapidare donne come questa” (Gv 8,5). La Legge facilmente falsa lo sguardo perché non è in grado di cambiare l’uomo, cioè riportarlo nel disegno del Padre in cui vivere la vita, che per sé stessa è filiale e dunque comunionale. La Legge lascia l’uomo in uno stato in cui la relazione non è l’essenziale della sua esistenza. Questa non ha inizio nel dono ricevuto, ma nella conquista attraverso l’impegno e perciò la relazione rimane sempre gestita dall’uomo. Perciò si può sentire a posto verso Dio e giudicare gli altri, persino calpestarli ed eliminarli. Il supremo imbarazzo della Legge senza Cristo è il destino stesso di Cristo, condannato secondo la Legge “per riscattare quelli che sono sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,5).
Anche la nostra storia testimonia in modo triste come è facile affermare a livello teorico Cristo e allo stesso tempo, schierarsi con innumerevoli ingiustizie o addirittura schierarsi apertamente contro l’uomo.
P. Marko Ivan Rupnik